La frontiera fragile tra noi e l’orrore

di Paolo Rumiz
Come soffia il vento sulla mia frontiera. Vento gelido di Nordest. Passa sulle trincee della Grande guerra, fischia nei rottami delle garitte jugoslave sull’ex cortina di ferro, si infila nelle fessure, toglie il sonno. Viene da lontano. Sa di steppe e di neve. Porta profughi a migliaia, ci frusta il viso. Ci avverte che ogni diaframma è saltato tra noi e gli spazi sterminati che hanno inghiottito le armate di Hitler e Napoleone. C’è un’invasione, l’Europa è in allarme. Ma è dal ’14 che l’Ucraina è in guerra. Dov’era la politica in questi otto anni? Pensava ad altro: ai rifugiati, al Covid. E noi per anni abbiamo vissuto di emergenze in una sequenza monotematica che ignorava il resto del mondo. Ora c’è l’Ucraina, e anche l’Ucraina cancella tutto il resto fino a quando un nuovo allarme mondiale la sostituirà. La pandemia continua, ma non è più un tema. Avanti così, in una rete di amnesie che ci espone a bruschi risvegli.
Oggi dal silenzio dell’indifferenza siamo precipitati nel frastuono delle “Breaking news” che alzano il livello dell’ansia ma non aiutano a capire. Per otto anni abbiamo dormito, come i governanti che nel 1914 hanno dato il via al massacro mondiale in uno stato di ebete sonnambulismo. Ciechi e muti, come a Srebrenica, dove eravamo complici. Oggi c’era dalla nostra un leader finalmente presentabile come Zelensky, ma non abbiamo colto l’occasione, e ora ne subiamo le conseguenze Ci muoviamo ancora in ordine sparso, uniti solo da un’isteria maccartista da analfabeti contro un grande popolo vittima di un autocrate. Questo, mentre le badanti russe e ucraine in Italia pregano per la pace nelle stesse chiese, leggono insieme Dostoevskij e insieme cantano nella cripta di San Nicola a Bari. Sanno che i loro due popoli, un po’ come Miroslav Krleža disse con autoironia di Serbi e Croati, sono «lo stesso letame diviso in due dal carro della storia».
Ora parlano i kalashnikov. Un giovane musicista ucraino posta su whatsapp la foto di un lanciagranate puntato sulla strada da una finestra e scrive: «Avevo comprato una tromba per far musica, ma Dio ha deciso diversamente e mi ha regalato questo meraviglioso strumento che mi dice: “Forza, suonami!”. E io lo sto suonando». Maksim, chiamiamolo così, ha lavorato nell’orchestra sinfonica europea alla quale ho prestato la voce narrante. Gli abbiamo scritto: «lascia stare Dio, che non c’entra. È da irresponsabili mettere in mano a un civile uno strumento simile. La guerra falla fare ai soldati. La tua battaglia è in musica, per il tuo Paese e per l’Europa». Risposta: «La guerra non è stata una mia scelta. Io volevo suonare, ero pronto a partire per dei festival. Ora non posso fare altro che combattere per la patria o morire. Pregate per la mia terra».
Anche nel più mite degli ucraini si agita un cosacco, e Maksim ci ricorda che è tardi per la politica e la diplomazia; che non è più il tempo dei distinguo, perché la guerra disattiva la dialettica e il pensiero complesso. Non serve dirgli che nei tank che assediano la sua città vi sono giovani di vent’anni che soffrono a eseguire gli ordini, perché Russi e Ucraini sono, a milioni, imparentati fra loro. Inefficace farlo ragionare sul fatto che la sua scelta renderà più pesanti le perdite fra i civili. Inutile farlo riflettere che questa è una strana invasione, se lascia aperti dei confini, non tocca le reti telefoniche e consente a dei treni di andare. O che tra le forze ucraine vi sono formazioni come il Battaglione Azov, noto per le torture ai civili russi nel Donbass. Miserabili sfumature, di fronte all’enormità di un’aggressione.
Dalla mia casa di campagna vedo passare gli ucraini in fuga che accogliamo a braccia aperte e, a poca distanza, nei boschi, i poveri cristi da Siria e Afghanistan che nessuno vuole. Nella corrente alternata della solidarietà, i secondi non sono più di moda. Peggio: aiutarli è ancora un crimine, secondo la legge Salvini che il nuovo governo non ha mai abrogato. I loro paesi li abbiamo bombardati anche noi, ma puniamo egualmente questi migranti con un’avversità razziale che non ci rende così diversi da Polacchi e Ungheresi. Li lasciamo morire di gelo sulla frontiera bielorussa o marcire nei gulag turchi, greci, bulgari. Cinque milioni di profughi che non vogliamo vedere perché non sono biondi e non hanno gli occhi chiari.
La mia frontiera è un sismografo che registra ogni scossa anche a migliaia di chilometri. Da quando sono nato, non ho fatto che veder genti in fuga da guerre, pulizie etniche o carestie. Istriani, Dalmati, dissidenti Jugoslavi, Curdi, Bosniaci, Iracheni, Afghani, Siriani e ogni genere di popoli africani. Una processione dolente, interminabile, che continua ad arrivare da Est o da Sudest per confluire nello stesso punto. Una sola cosa non avevo mai visto: che su questa linea ci fosse chi ha diritto alla vita e chi può anche crepare. Tu sì, tu no. Due file, come ad Auschwitz. Difficile dormirci sopra.
Vado a far legna nel bosco per… non finanziare la Gazprom. Un modo vigliacco per nascondermi, non pensare al tramonto dell’Europa e sfuggire alla vergogna. O per sparire da questo mondo ipercontrollato dove la libertà è morta e la pietà pure. Fa freddo e la stufa inghiotte intere cataste. Intanto, la macchina delle armi va avanti lo stesso. Da decenni finanziamo il riarmo di Putin comprando il suo gas e, pur di avere il culo al caldo, abdichiamo dai principi fondativi della nostra democrazia. Cecenia? Anna Politkovskaja? Tutto dimenticato. Meglio sorseggiare aperitivi, guardare Netflix e intanto delegare alla sola America la nostra difesa, senza integrare il pensiero atlantico con una visione mediterranea. Eppure mai come ora è tempo di esportare la democrazia in un altro modo, senza erodere gli spazi cuscinetto fra noi e la Russia e senza far danni irrimediabili come a Kabul, dove siamo stati cacciati a pedate da un’orda di guerrieri scalzi.
Ero a Leopoli nell’inverno del 2014, durante la rivolta di piazza Maidan a Kiev. Fu subito chiaro che il popolo non si era sollevato contro i Russi, ma contro i corrotti. Una rivolta civica, nata dalla nausea per gli eccessi di un governo di ladri. In piazza Maidan la fertile Ucraina, granaio d’Europa, si chiedeva le ragioni della sua povertà e le trovava nella corruzione della cleptocrazia post-comunista. Ma appena il governo fantoccio del Cremlino è caduto a furor di popolo, la nomenclatura, con la tipica, collaudata giravolta che s’era già vista in Jugoslavia o con la caduta di Ceausescu in Romania, ha ordinato ai servizi segreti di trasformare la rabbia politica in uno scontro etnico, per non pagare il conto del suo fallimento. Ammazzatevi fra voi, idioti, invece di discutere il potere.
L’Ucraina è lontana da Washington. L’Europa occidentale no, non può permettersi di ignorarlo. L’Ucraina è Europa. Per certi aspetti ne è il baricentro. «Ucraina vuol dire frontiera, terra di mezzo», mi ricordò già nel 2008 in una stazione fra Leopoli e Odessa uno studente di medicina. Detestava Putin, ma aggiunse: «Se il mio Paese smette di essere ciò che è stato per secoli, cioè uno stato cuscinetto, per entrare in un’alleanza occidentale, succede il putiferio e Mosca interviene». Ripenso spesso a quell’incontro di quattordici anni fa, fatto in un viaggio per Repubblica. Chiunque ha un briciolo di memoria sa che la fascia di territorio fra i Balcani e il Baltico è anche una linea di faglia altamente infiammabile, una Blood Land, come l’ha definita Timothy Snyder, dove Est e Ovest non hanno ancora risolto le loro pretese imperiali e dove il fango ha inghiottito sessanta milioni di vite in una successione di tragedie lunga un secolo. Non possiamo consentire che si incendi ancora.
Oggi per la prima volta dal ’45 la guerra non è più una cosa che riguarda gli altri. Stavolta, più che con la guerra jugoslava, ci sfiora l’idea che potremmo diventare profughi anche noi.
Sarebbe un peccato scoprire solo quando è tardi il sapore dolce della pace.
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