Nel 1992 irruppe nella mia quiete domestica un perturbante sotto forma di giornale. Mio padre, torinese classe 1934, leggeva La Stampa e un giorno, era domenica, se ne tornò dall’edicola con un altro foglio, L’Indipendente, alla cui testa si era appena insediato Vittorio Feltri, salvando la testata, more suo, da sicuro fallimento.

L’Indipendente sobillò il mio temperamento, che a sua volta mi ingiunse la militanza politica – fu due mesi la Lega Nord, e poi il Movimento sociale: anni dopo mi sarei però ritrovato su posizioni più che opposte –, e una passionaccia per il giornalismo e la scrittura. Ed ero, ovviamente, uno dei tanti ubriachi dell’inchiesta Mani pulite, come oltre il novanta percento degli italiani d’ogni classe ed età.

Ebbi dei dubbi fortissimi su quanto era accaduto sino a quel momento quando ascoltai la deposizione di Bettino Craxi al processo Cusani. Pensai di non aver capito qualcosa, ossia tutto o quasi, e tentai, con gli strumenti di allora e con l’età che avevo, quattordici anni, di vederci meglio, sinché non mi convinsi dell’anomalia che il nostro Paese stava vivendo e misi il freno a mano mentre attorno a me tutti pestavano sull’acceleratore, anche se l’avrebbero ancora fatto per poco.

Chi capì invece subito una buona parte della verità fu Filippo Facci, come testimoniò sia con contro-inchieste giornalistiche, sia con diversi libri, tra cui una biografia, non autorizzata e magistrale, di Antonio Di Pietro (Mondadori 1996 e 2009), e che oggi ritorna con 30 aprile 1993. Bettino Craxi, l’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica (Marsilio).

Il libro ricostruisce, minuto per minuto, quanto avvenne quel giorno davanti all’Hotel Raphaël, aggiungendovi particolari inediti e urticanti, e gli eventi che subito lo precedettero e seguirono. Il 29 il parlamento salvò di fatto il leader socialista da ulteriori e più gravi guai giudiziari personali e dall’istante dopo l’Italia si trasformò in una via di mezzo tra la fornace e la forca, su cui desiderava veder letteralmente crepare Craxi, ormai simbolo di un’intera classe politica corrotta e vergognosa. Preferisco non inoltrarmi nei dettagli, tutti succulenti, e lasciar così al lettore il piacere di leggerseli. Gioverà non soltanto a chi in quel tempo aveva già memoria, ma soprattutto a quanti nacquero dopo e nulla sanno del clima che si respirava allora ovunque. Voglio concentrarmi invece su alcuni aspetti emergenti dal libro di Facci o che questi, pur nella sua notevole acribia giornalistica, evita o ignora. Il libro ricostruisce anche parte del contorno: dalla sua amicizia con Craxi alle congiunture e derivate, ma solo le italiane, che agli inizi degli anni Novanta prendevano forma: l’inchiesta Mani pulite, il sospetto Di Pietro, l’atteggiamento mutato della popolazione la cui ferocia viene fomentata da corali campagne di stampa, la mutazione genetica di certi politici, eccetera. E, verrebbe da dire soprattutto, giusta il sottotitolo, la fine della politica. L’autore giunge a una conclusione che è già nelle premesse del libro:

«Ciò che venne dopo [il 30 aprile 1993] non fu più politica: furono le forme della sua assenza. La tecnocrazia. L’illusione della società civile. La pan-penalizzazione integrale del vivere quotidiano. Il neopopulismo. Persino una medicalizzazione coattiva della cittadinanza, con un netto restringimento delle libertà costituzionali: qualcosa che è ben lungi dal vedere la fine – mentre scriviamo – ma che ha messo ancor più fuori gioco, se possibile, i partiti intesi come rappresentanti della fisiologia democratica».

Quel 30 aprile «è il giorno in cui morì la politica», conclude, anche perché «quella fu, in primo luogo, una violenza. Si potrà scegliere l’aggettivo che ne segue: ma il termine resta “violenza”». Di là dal biasimo per la violenza cui oggi tutti s’adeguano come se la qualunque storia si facesse soltanto con predicozzi e fiori, restano l’amarezza e lo sconcerto per la morte di un mondo che, noi meno giovani, se non siamo stati del tutto rimminchioniti, rimpiangiamo a vario grado. Per quanto indecenti e indecorosi fossero talora certi politici, è indubbio che a petto di quelli che ci appestano da oltre un quarto di secolo – verrebbe da dire: dal 30 aprile 1993 –, svettavano sotto ogni rispetto. Riascoltare le vecchie tribune politiche, risfogliare vecchi giornali, ascoltare comizi e discorsi di segretari di partito avendo negli orecchi gli attuali, mi procura un’ammirazione, raffrenata soltanto da idee radicalmente opposte e da una diversa consapevolezza del movimento storico. I sedicenti politici sono ormai privi di carisma, privi di visioni del mondo e di letture, di basi pratiche e morali. I dibatti saranno più sciolti, meno ingessati di un tempo (anche se più sorvegliati), ma non hanno perciò stesso guadagnato in qualità. Si poteva dissentire da Berlinguer o da Moro, essere ostili o favorevoli alla politica sovietica, quel che volete. Ma senza dubbio si aveva (quasi) sempre a che fare con avversari o alleati degni e degni ritenuti. I difetti e le voragini morali e materiali erano soventissimamente compensate da una consapevolezza politica e da soliti fondamenti culturali, di cui oggi non c’è più alcuna traccia nemmeno tra il migliore dei peggiori. Persino la lingua che si udiva o leggeva, a raffronto dell’attuale pareva Cicerone. Ormai ogni accenno al crescente disamore dei giovani verso la politica e la conseguente emorragia di iscritti ai partiti e ai movimenti non trova più spazio: la si considera malattia democratica conclamata e irremeabile. Ma come è possibile per un giovane, già disperato e distratto del suo, appassionarsi a un Di Maio, a una Santanché, a un Fratoianni?

E invero nel fatale biennio 1992-1993 la fine era già iniziata: la stessa folla che si adunò davanti al Raphaël, quasi tutti missini e pidiessini, avevano i loro capi in tizi come Gianfranco Fini («un vuoto incartato», Craxi dixit) e in Achille Occhetto (già meglio, ma uno «zombie coi baffi», giusta Cossiga), e presto si sarebbero ritrovati, è il caso di dirlo, ad ancor peggior partito. Alzando poi gli occhi alla scena internazionale, la situazione non è certo migliore oggi. Gli unici leader ad aver qualcosa da dire e a saper combinar qualcosa, si contano sulle dita di una mano, al massimo una e mezza. Un Putin, un Orban, un Trump, che sono ovviamente ogni giorno maledetti dalla stampa così detta per bene, quella che, in parentesi, fiancheggiava (scelgo bene il verbo) l’eversione giudiziaria del 1992. Se è vero che la democrazia moderna non tollera le eccellenze, la sua estrema propaggine, che stiamo vivendo, giunge addirittura a odiarla, al punto di negarla e polverizzarla con le parole, quando non con brogli elettorali o con le bombe, per sostituirli con tecnici, burocrati, fantocci. Eppoi la famosa qualità della vita, che era alta a quel tempo, anche grazie a quei ladri corrotti e concussori sgominati dagli “avengers de noantri”. Lo stesso Facci in un’intervista televisiva sul libro lo ammette (riassumo): pensavo di soffrire anche io della sindrome nostalgica e invece no: allora si stava meglio soprattutto perché adesso si sta peggio.

Ma adesso che abbiamo dato sfogo ai rimpianti, bisogna mettere in piedi in terra e constatare che al di là di essi restano la necessità storica e una tabe che, persino in uno attento e non prevedibile come Facci, emerge con prepotenza, e di cui è partecipe la stragrande maggioranza degli ostili al nuovo corso. L’idealismo inconscio e abitudinario si arrabatta a scovare nei cieli le motivazioni dei fatti storici e, quando non li trovi, com’è naturale, diventa afasico, spalanca le braccia e si limita con rammarico a prender atto di quanto accada. Ma uno sforzo maggiore ci consente di trovare almeno una causa tra le molteplici del generale impoverimento, materiale e morale, e del globale imbarbarimento, così come della scomparsa della politica. La nostra epoca è economica per eccellenza, più ancora di cinquanta o cento e cinquant’anni fa, e pertanto non abbisogna di cervelli, di comunità organiche, ma quasi solo e sempre di amministratori e servi obbedienti al capitale e alle sue spietate logiche.

Facci lo intuisce: «Mani pulite si era rivelata… uno strumento come un altro per cancellare una concezione della politica e di una classe dirigente. Con la globalizzazione che avanzava e con l’Unione europea disegnata a Maastricht, il destino delle nazioni sarebbe stato strappato alla vecchia politica per essere dominato dalla macroeconomia, ben decisa a imporre le riforme ritenute necessarie, i tagli allo Stato sociale, la svendita e la privatizzazione delle aziende statali e il pareggio di bilancio come nuovo zenit». E pare auspicare implicitamente una marcia indietro: «abbiamo la certezza che è il nostro è l’unico paese europeo che non ha (più) un partito liberale, socialista, verde o democratico-cristiano». Quando la politica è spazzata via da nuove forme di governo edificate sul denaro bisogna trarre conclusioni altrettanto radicali e non, come si auspica, opporsi al nuovo corso riproponendo un ritorno al passato anche solo ripristinando una forma politica di cui si speri l’azione restauratrice. Questa è una visione ottusa e pericolosa, nondimeno vana. La situazione che si creò nei primi anni Novanta, inoltre, dimostra che la politica nel senso inteso da Facci era di fatto debole: istituzioni consolidatesi nel corso di plurimi decenni sono liquidate nel volgere di breve, brevissimo tempo. E di più: è inverosimile e ingenuo reputare che quella politica potesse raffrenare l’arrivo di una soperchiante dittatura finanziaria: essa era, sebbene in modo meno percepibile e con ampi tratti di autonomia, un suo puntello. La storia del Novecento, per limitarci a questa, dimostra da cima a fondo quanto sia lo stesso sistema democratico post-ottocentesco a essere asservito al capitale, ora divenuto quasi esclusivamente finanziario. Ed è d’altra parte la stessa storia del capitalismo, ovvero dell’Europa dal Rinascimento a oggi, a insegnarci che la politica, come la religione, ha sovranità limitata. I fatti dei primi anni Novanta e quel che ne venne, ci dovrebbero insegnare il destino dell’Occidente e del mondo, cui ci si può, o deve, opporre e soltanto mediante una scelta radicale.

Con la democrazia non c’è più ragione di essere amici e anzi non c’è mai stata. Se si soppesano fino in fondo gli anni che corrono dalla fine dell’ultima guerra sino allo svolto del 1992-1993, si deve constatare l’esistenza continua di sperequazioni sociali e morali, dello sfruttamento, della violenza ai danni dei deboli, delle mafie, delle stragi di Stato, e via di seguito. Pertanto il paragone tra l’attualità e il relativamente recente passato, per quanto lecito, è di fatto un paragone tra due differenti disastri. Ma lascio la parola a Borges, che nel Deutsches Requiem immagina le parole di un nazionalsocialista condannato a morte. Ne spicco qualche fondamentale passaggio, invitando il lettore a leggerlo per intero, magari insieme alla Svastica sul sole di Philip K. Dick. Ecco:

«Sarò fucilato come torturatore e assassino […]. Chi saprà ascoltarmi, capirà la storia della Germania e la futura storia del mondo […]. Domani morrò, ma sono un simbolo delle generazioni future […]. Hitler credette di lottare per un paese, ma lottò per tutti, anche per quelli che aggredì e detestò. Non importa che il suo io lo ignorasse; lo sapevano il suo sangue, la sua volontà […]. Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose […]. Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo le sue vittime».