La battaglia di Siena per Daniele da Volterra e il progetto Pinacoteca

 
Nel mio articolo richiamato nella lettera di Marco Ciampolini non accusavo di campanilismo gli estensori dell’appello che chiedeva la concessione in deposito alla Pinacoteca di Siena dei due dipinti di Daniele Ricciarelli da Volterra acquistati dagli Uffizi. Mi limitavo a dire che la vicenda stava suscitando nell’opinione corrente  futili diatribe di campanile. Che poi l’iniziativa sia stata imbastita in netta prevalenza da personalità e studiosi senesi mi pare indubbio: è una constatazione e non discuto la sincera buona fede alla base di molte adesioni. 
Quanto alla sostanza del problema resto convinto, unitamente a numerosi esperti consultati, che la miglior collocazione delle due opere, l’Elia nel deserto e la Madonna col Bambino, San Giovannino e Santa Barbara, sia per le modalità seguite nell’acquisto che per congruità storico-filologica, sia la Galleria degli Uffizi, la quale ha impiegato per la maggior parte risorse derivanti dalla sua bigliettazione. I due quadri andranno così a far compagnia alla Strage degli innocenti, un terzo dipinto di Daniele, e conferiranno quindi più spessore ad un contesto considerato il più adatto. È da tener presente che la diplomatica linea seguita dalla Soprintendenza senese ha prodotto l’ottimo risultato di garantire la fruizione pubblica delle opere con, per di più, l’obbligo a farle rimare insieme. Altra questione è l’eventuale prestito per mostre o iniziative da concordare con gli Uffizi. La collaborazione con Siena è sempre stata eccellente.  
Quanto alle ragioni scientifiche che fanno propendere per l’opzione in essere non è fuori luogo osservare che il nome del Braghettone è precipuamente legato alla figura di Michelangelo. Concepiti a Roma nel corso degli anni Quaranta del XVI secolo, i due dipinti sono l’espressione forte del rapporto che Daniele aveva, appunto, col grande Michelangelo. Certo, dimostrano pure che sapeva guardare i magistrali esempi di Raffaello e dei suoi straordinari allievi. È questa medesima impronta figurativa a caratterizzare le opere di Domenico Beccafumi: l’autore volterrano e quello senese appartengono alla stessa cultura del tempo, ma non c’è motivo plausibile per sostenere che l’uno abbia avuto un ruolo per l’altro. È riemersa in questo clima di dialogo la decisione di far tornare definitivamente a Siena i due splendidi dipinti del rarissimo pittore tedesco Albrecht Altdorfer, concessi in deposito revocabile agli Uffizi dall’Istituto provinciale di Belle Arti di Siena. Si sa con sicurezza la natura giuridica delle due opere, che spinge a riconsegnarle alla collezione Spannocchi. Questa richiesta – della quale gli estensori dell’appello non hanno fatto menzione alcuna – era giuridicamente fondata e ha trovato finalmente una corretta soluzione. 
Lo scopo principale del mio articolo era – e resta – invitare le amministrazioni interessate e il Comune in particolare a costruire un’agenda che individui le priorità rilevanti e urgenti tra le quali spicca la nuova sistemazione della Pinacoteca. Ne ho scritto tante volte su queste pagine che non sto a ripercorrere argomentazioni svolte. Può darsi che sia insormontabile il diniego del MiBACT e del direttore del Polo museale toscano a trasferire nel Santa Maria della Scala la collezione della Pinacoteca, dandole la dignitosa autonomia che le spetta. Può darsi che il progetto ambizioso e strategico, in grado di generare un volto nuovo e potenzialità inedite alla città, sia tramontato, come ho ipotizzato sovente a malincuore. Ma perché non compiere un ultimo tentativo in questa direzione? Questo è il nodo serio da sciogliere rispetto al quale la (legittima) disputa sui due quadri è un dettaglio più che secondario. 
Non elenco altri temi collegati a questa radicale innovazione, per la quale si era profilato nel primo semestre del 2000 un positivo accordo (ministra Melandri, sindaco Piccini). L’obiettivo non è stato perseguito con la tenacia necessaria e le responsabilità sono attribuibili a vari soggetti. Il Ministero si è mostrato incerto e reticente, il Comune fiacco e distratto etc. etc…
Infine mi si domanda perché non abbia portato avanti con forza questa iniziativa quando ero sindaco e successivamente in qualità di deputato del Parlamento europeo,   «il rappresentante politico più ascoltato di Siena». La domanda è irricevibile. Io sono stato sindaco di Siena dal dicembre 1969 al gennaio 1974, quando l’Ospedale Santa Maria della Scala era ancora un ospedale. Passò in proprietà diretta del Comune a seguito del decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 24 luglio 1977. L’ultima degente a lasciare nel 1996 le decorate stanze fu Caterina Senesi, nome entrato nella leggenda. Il concorso per avviare il restauro e la (non conclusa)  ristrutturazione, vinto da Guido Canali, è del 1995. La grande mostra di Duccio che coincise con l’annessione nel complesso di Palazzo Squarcialupi fu inaugurata  nell’ottobre 2003. Se si fossero concentrati i sostegni della Fondazione Mps sul Santa Maria si sarebbe già portato a termine il grosso dell’operazione. Nondimanco ho continuato fino a ieri – e continuerò – a battermi perché nella definitiva riformulazione del progetto o dei progetti sia assicurata un’identità all’altezza del valore del bene e perché la Pinacoteca divenga anche formalmente uno dei grandi musei nazionali gestiti con la necessaria autonomia in raccordo con il Santa Maria elevato a Fondazione di partecipazione. Al riguardo potrei esibire una bibliografia fin troppo voluminosa, pur non avendo avuto da tempo ruoli politici o amministrativi.
E non sono mai mancate da parte mia proteste, indicazioni, relazioni, articoli. Sono stato forse ascoltato, ma non di rado sconfitto, insieme a coloro che, più autorevoli di me, non sono riusciti a render concrete finalità essenziali per una città che ha oggi più che mai bisogno di una riconversione profonda e coraggiosa della sua indebolita economia. Il mio timore è che si punti a rafforzare e razionalizzare il Museo dell’Opera della Metropolitana e si voglia usare il Santa Maria a solenne contenitore da adibire alle mostre più varie, a fiere sulla produzione agroalimentare, a quant’altro si voglia allestirvi una girandola di “eventi” che non darebbero al complesso l’identità preminente auspicata e affidandolo del tutto ad una privatistica logica commerciale.        
                                                                                                    Roberto Barzanti