Vediamo un uomo col baffetto retrò che esce dal suo appartamento con una giacca da camera. Accende una sigaretta lì accanto alla fontana. Intanto una giovane, con una gonna rosa Anni 50, scende la scala esterna della sua abitazione con un mazzo di fiori in mano. Raggiunge la fonte e cambia l’acqua del vaso. L’uomo occhieggiandola le dice “Bonjour”. Lei risponde timida al saluto, senza guardarlo in volto, poi rientra. La scena si ripete invariabilmente ogni cinque minuti per tutta la durata della mostra AGAINandAGAINandAGAINand. Curata da Lorenzo Balbi con Sabrina Samorì, la collettiva ha inaugurato l’anno espositivo del Mambo di Bologna, ponendo nuovi (e antichi) interrogativi sulla nostra civiltà distopica. L’opera di Ragnar Kjartansson (1976), Bonjour, è concepita come uno spaccato di vita, con un gesto quotidiano che non ha seguito narrativo se non il perpetuare se stesso.
Sono diversi i media che costruiscono il panorama ossessivo e ripetitivo della mostra. Dai quadri di Apostolos Georgiou (1952) che dipinge un antieroe ebete e impacciato in banali interni domestici; alle installazioni sonore di Susan Philipsz (1965) che recupera ballate folk mischiandole a suoni e rumori di stazioni ferroviarie e aeroporti. Il monotono «eterno ritorno» quotidiano, messo letteralmente in scena nella collettiva, ha un fondo inquietante e non ordinario. E’ un mosaico live di sensazioni, ricordi, emozioni che chiunque condivide secondo la propria storia personale e sociale. Un’analisi sulla concezione temporale neoliberista, sull’avvelenamento della terra da parte delle multinazionali, sulla falsa narrazione di un benessere predatorio, estrattivo e illusorio, è svolta nel libro-catalogo (curato da Caterina Molteni) che contiene approfondimenti critici e filosofici di ampio respiro. La ripetizione del gesto alienante e vuoto ma soprattutto le dinamiche del controllo biologico, sono al centro del video di Cally Spooner (1983). Ogni movimento di due coreografi avvinghiati e striscianti (più un danzatore libero) è impossibile. Il video restituisce una sensazione di impotenza e coercizione.
La nostra vita si svolge in loop e l’uomo, come specie, sembra irreversibilmente prigioniero della tecnologia, dei propri vizi e della propria crudele razionalità. Il concetto di ciclicità si perpetua nel respiro, che Marcel Duchamp definisce saggiamente atto creativo, ma si declina in innumerevoli modi. Il tailandese Apichatpong Weerasethakul (1970) ha girato il film A Letter to Uncle Boonme ricavato da un libro donatogli da un monaco tibetano. La storia è quella di un uomo di Nabua, un villaggio distrutto dai nazionalisti, che racconta le storie delle proprie reincarnazioni secondo la credenza del ciclo delle rinascite. Nell’osservazione della ciclicità del tempo, Luca Francesconi (1979) include il rapporto tra natura e tecnologia nel territorio antropizzato. Sculture, pesci, cavolfiori, ferri, sassi e altre specie animali e vegetali sono i soggetti elaborati dall’artista che si avvale di elementi sia organici sia artificiali.
La sintesi della mostra è nella straordinaria installazione di Ed Atkins (1982) che, con tre enormi monitor a soffitto come quelli dei non-luoghi, ci risucchia nella ripetizione del tempo del terrore e del vuoto. Il nastro trasportatore dei bagagli di un aeroporto e il nastro dei controlli di polizia, girano senza soluzione di continuità di fronte all’avatar dell’artista. Questi fa cadere – nelle vasche dove si depositano gli oggetti personali per passare gli infrarossi – pistole, fucili, ketchup, omini morti, arti umani, nasi e maschere che il protagonista stacca dalla propria faccia. Un senso di solitudine, stupidità, indifferenza ci pervade mentre – affascinati dall’incalzare delle immagini e delle note del Bolero di Ravel – rimaniamo lì a contemplare il nostro probabile inetto futuro.
AGAINandAGAIN andAGAINand