Joséphine Baker, quando è una stella nera a brillare su Parigi

JOSÉPHINE BAKER entrerà al Panthéon il 30 novembre prossimo. Sesta donna ad essere accolta nel mausoleo dei «grandi uomini» a cui «la patria è riconoscente», è stata scelta da Emmanuel Macron (che ha già portato al Panthéon Simone Veil e lo scrittore Maurice Genevoix) come simbolo dei valori universali: una personalità che «ha avuto ogni sorta di coraggio e audacia», ha spiegato il presidente, «sintesi di ciò che vuol dire essere francese, lei che era americana» (la data, il 30 novembre, è quella del terzo matrimonio, nel 1937, con l’imprenditore ebreo Jean Lion, che le permise di acquisire la nazionalità francese).

Per Macron, la scelta è tattica, in vista delle presidenziali del prossimo aprile, nel caso molto probabile di una ricandidatura: Joséphine Baker rappresenta l’apertura al mondo, le battaglie per l’eguaglianza e la libertà. La sua biografia eccezionale illustra il volto migliore della Francia «universale», la «prova che nella Repubblica tutto è possibile». C’è stata solo qualche reazione di malumore, perché questa scelta esclude quella dell’avvocata Gisèle Halimi, impegnata nella guerra di liberazione dell’Algeria, morta l’anno scorso.

Joséphine Baker cantava «J’ai deux amours, mon pays et Paris» e Parigi gli ha già dedicato una piazza e la piscina sulla Senna. Nata nel Missouri da un padre di origine spagnola e una madre afroamericana e amerindiana, Baker era arrivata in Francia nel 1925, a 19 anni, dopo un inizio di carriera di secondo piano negli Stati Uniti prima come artista di strada e poi a Broadway, dove viene scoperta dalla moglie di un funzionario dell’ambasciata americana a Parigi.

Qui, negli anni dove fauves e cubisti sono influenzati dall’art nègre è subito il successo con la Revue Nègre, su ispirazione di Fernand Léger. Nel 1927 è alle Folies Bergère, in scena con il leopardo Chiquita. Nel 1928, l’anno in cui Alexandre Calder realizza la scultura di Joséphine con un fil di ferro, il siciliano Giuseppe «Pepito» Abattino, il suo grande amore che non sposerà mai, uno spaccapietre diventato impresario, organizza un tour mondiale dove la cantantwe-ballerina che si presentava in scena con una gonna fatta di bucce (finte) di banane porta in tournée le musiche del mondo, dal jazz al tango.

Torna numerose volte negli Usa, partecipa al movimento del Rinascimento di Harlem con Louis Armstrong e Duke Ellington al Cotton Club e all’Apollo Theater, ma accumula delusioni, subisce accuse contraddittorie, mafia e Fbi la contrastano. «Un giorno ho capito che abitavo in un paese dove avevo paura di essere nera, non c’era posto per i neri, soffocavo negli Stati Uniti, mi sono sentita liberata a Parigi».

GIÀ DAL 1939 diventa agente del controspionaggio francese e dal 1940 lavora per la Francia Libera, anche dal Marocco e dal Medioriente, dove fa passare messaggi nascosti nelle partizioni musicali. L’importante agente del controspionaggio francese, Jacques Abtey, l’ha usata come copertura. Con il quarto marito, il direttore d’orchestra Jo Bouillon sposato nel 1947, adotta 12 bambini, un «villaggio del mondo» al castello di Milandes in Dordogne (i piccoli vengono da Giappone, Corea, Finlandia, Costa d’Avorio, Marocco, Colombia, Israele, Algeria, Francia, Venezuela), proprietà che sarà costretta a vendere nel 1968 per ragioni economiche.

Joséphine Baker muore a Parigi nel 1975 ed è sepolta a Montecarlo, grazie all’amicizia che aveva avuto con Grace Kelly. Le si attribuiscono molti amori, un colpo di fulmine di Le Corbusier, George Simenon, la scrittrice Colette, Frida Khalo. Ha ispirato film, canzoni, un’operetta, fumetti, opere d’arte (Matisse la ritrae nel 1952). Il figlio Brian spera per l’entrata al Panthéon in una cerimonia «musicale, popolare e festiva, all’immagine di mia madre», che potrebbe durare 2 o 3 giorni.

 

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