Se clima e tempo non sono sinonimi, diventano prossimi nella loro restituzione quotidiana che tende a stringere nel senso comune rilievi meteorologici e successione di eventi – siano questi ultimi interni o esterni. Il punto non ha a che fare solo con la fornitura di cui dispone ciascuna lingua, bensì con un modo di rappresentare il limitrofo che impone nominazioni più polisemiche di altre.
A ben guardare, il clima ha tuttavia nel suo etimo, tiene con sé elementi geografici dati dall’inclinazione terrestre, insieme a un grado di probabilità che si attaglia ai vari contesti materiali. Riconoscibile a ogni latitudine, non accade lo stesso al tempo soprattutto quando siamo dinanzi alla differenza tra termini che costruiscono gli immaginari. Già dal titolo, l’ultimo romanzo della scrittrice statunitense Jenny Offill interroga più a fondo questi slittamenti e sulle diverse categorie che si adeguano alla loro lettura: al centro di Weather, incrociamo sia l’ingovernabilità di un clima in cortocircuito che la suscettibilità meteorologica. E riconosciamo quanto ciò condizioni l’esistente, viventi compresi, colti nel pieno di un disastro. La scelta italiana è allora indovinata: Tempo variabile (NN editore, pp. 167, euro 16, traduzione di Gioia Guerzoni) racchiude gran parte dei significati sia esperienziali che scientifici.
Fin dai suoi Sembrava una felicità (2015) e Le cose che restano (2016), la scrittura di Offill è corpo suscettibile di inventari recuperati in numerosi giochi linguistici. Il tenore della lingua che usa, tra prosa poetica, memoir e inserti aforistici, è ibrido impreciso come il respiro ed esatto come il sangue. Entrambi i movimenti concernono chi abita sotto la volta celeste, avvertendo la temperie della catastrofe, immanente e invischiante.
I disastri di cui si occupa Lizzie, protagonista del suo ultimo romanzo, sono quelli dovuti al clima. Lei legge ciò che funesta gli utenti che le scrivono. In che modo si misura con le percezioni di terrore, incubi o disorientamenti?
Lizzie è diretta e sincera. Se hanno paura, riconosce le loro paure e concorda sul fatto che il futuro sembri spaventoso. Dice loro che in un disastro il modo di rimanere sani, anche psichicamente, sta nel cercare modi per aiutare gli altri perché questo ti permette di riformulare la situazione. In quel momento diventi qualcuno che soccorre, non una vittima e questo sostiene nel dare uno scopo a se stessi quando tutto intorno sta andando a pezzi.
Esperti televisivi danno consigli su come sopravvivere, vademecum per indicare come ci si dovrebbe sentire. Per esempio la gente, secondo uno di questi specialisti, non è scontato si faccia prendere dal panico. La maggior parte si paralizza, il cervello rifiuta di accettare quello che sta accadendo. Si chiama, lei scrive, reazione di incredulità. E prosegue: «quelli che sopravvivono, si muovono»…
La reazione di incredulità ha a che vedere con il pregiudizio della normalità, uno dei tanti «bias cognitivi». Il nostro cervello attinge a schemi entro cui comprendere le situazioni. In una nuova circostanza, specialmente spaventosa, le persone spesso rifiutano di credere ciò che si presenta loro dinanzi allo sguardo. Di contro, tentano di adattare la condizione a qualcosa che già conoscono e maneggiano. Immaginiamo un problema aereo; ecco, la ragione per cui ci viene detto di lasciare stare i bagagli a bordo in caso di incidente è perché le persone spesso cercano di tenerli con sé anche se il velivolo è in fiamme. Ciò significa che i loro cervelli si tarano su un vecchio schema che suona in questo modo: «quando scendo dall’aereo, recupero i miei bagagli». Certo che deducono sia un momento straordinario, ma si comportano come se non lo fosse. Consigliare di muoverci o agire in un certo modo è raccomandato appunto perché può portarci alla consapevolezza che non si tratti di una faccenda solita, e che anzi ci sia pericolo in cui siamo coinvolti.
Un futurologo ascoltato da Sylvia, un’altra delle sue personagge, riferisce una previsione che suona come quasi di malaugurio: «gli anziani, nelle grandi città, avranno paura del cielo».
Questa previsione è stata fatta dallo scrittore di fantascienza Bruce Sterling. Ha predetto che man mano con la crescita della crisi climatica sempre più persone avrebbero avuto paura di quello che sarebbe stato il prossimo disastro naturale. Per questo motivo, gli anziani guardano il cielo con un certo disagio.
«L’unico motivo per cui pensiamo che gli esseri umani siano all’apice dell’evoluzione è che abbiamo scelto di privilegiare certe cose rispetto ad altre». Come si colloca in questo parere espresso nel suo romanzo?
È difficile sapere che tipo di società, che caratteri o preferenze artistiche o musicali, abbiano creature intelligenti come balene e delfini. Non sappiamo come definire tutto ciò perché non condividiamo una lingua. Non abbiamo parametri per calcolare il modo in cui gli alberi comunicano tra loro, ma siamo a conoscenza che lo fanno attraverso un vasto sistema di radici. Pure manchevoli, gli esseri umani sono geniali produttori di strumenti e per questo motivo abbiamo costruito strutture e meccanismi intricati che ci hanno permesso di colonizzare gran parte del mondo naturale in un modo unico e assai pericoloso.
Chi popola i suoi libri ha la capacità di sondare il mondo in profondità. Svolgono talvolta lavori riconoscibili eppure colmi di connessioni impreviste. Come l’utente della biblioteca in cui Lizzie lavora che le dice di perdersi delle cose ma di avere guadagnato più tempo per pensare.
Sono interessata alle persone che mi circondano, che siano amici o estranei. Desidero sapere cosa conta per loro. Per me non è così rilevante quale sia il loro status o la sua mancanza all’interno della società. Lizzie, la narratrice di Weather, mi è simile. È assai curiosa delle persone che entrano nella sua biblioteca, le ascolta e si diletta nel sentire le loro storie anche se a volte è appesantita dai loro dolori.
Ci sono cose che sembrano e poi quelle che hanno la forza di persistere, di non passare. Cosa resta a Lizzie?
Lizzie è sempre stata una persona molto studiosa, ha vissuto tra le mura della propria testa. Eppure alla fine del romanzo, la incontriamo mentre è capace di sperimentare anche altri sensi. Sta guardando e ascoltando quel che esiste intorno a lei, incluse creature non umane a cui presta attenzione. Questo è un passaggio verso una maggiore coscienza di empatia e comprensione e penso che la aiuti a capire che deve agire per il bene collettivo non solo per i propri interessi.
La categoria del tempo è cruciale in ogni suo libro, scansione imperfetta, empirica scientifica o semplicemente vissuta. Di ciascuna solleva la turbolenza Che stoffa ha secondo lei questo presente?
Più strano, elastico. Questa orribile pandemia, con le sue ondate alternate di tremendo e tedio, significa che siamo costantemente sorpresi e passiamo all’improvviso da un momento di quiete a un nuovo senso di orrore esistenziale. Ciò che so è il mio sfinimento, la maggior parte del tempo, come se stessi camminando in un campo fangoso da lunghi giorni. La crisi climatica ha anche un modo di far sembrare irregolare e inquieto il tempo perché ci costringe a fare i conti con una profondità, per esempio geologica a cui la maggior parte di noi non è abituata.
Quali sono le letture con cui si orienta non solo in queste settimane?
Soprattutto Rainer Maria Rilke e le sue elegie duinesi che sembrano sempre offrirmi qualcosa di inesplorato. Ho anche riletto Robert Walser, Virginia Woolf, Natalia Ginzburg e Albert Camus. Tutti sembrano parlare particolarmente bene di questo momento puntellato di incertezza e terrore. Li amo e li rileggo spesso perché ciascuno e ciascuna di loro sanno come creare momenti di luce radiosa nell’oscurità.