«In tv ho visto le verità del ’92».

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A Roma muoveva intanto i suoi passi la Lega. «Questa parte è raccontata bene. Lo sbarco di Bossi e colleghi nella capitale, loro che sfogliano il regolamento di Montecitorio prima di addormentarsi. E poi il democristiano che vuole istruire il leghista ex militare…».
Di Pietro in «1992» ha l’ossessione di far finire Craxi nella rete. «È una novità: non era mai stato detto così chiaramente. Ci furono anche due incontri, fra la fine di luglio e l’inizio di agosto, tra Craxi e Di Pietro. A Craxi premeva la sorte di Dini, presidente della Metropolitana di Milano e di Zaffra, ex segretario della Uil lombarda. Poco dopo gli incontri furono scarcerati, ma Di Pietro non mollò la presa».
C’è un pranzo, in «1992», fra Di Pietro e Giovanni Falcone, che lavorava al ministero della Giustizia. Falcone spiega a Di Pietro come si devono fare le rogatorie internazionali. «Che io sappia, non ci furono pranzi fra loro. L’atteggiamento della serie è interessante, perché da una parte glorifica il pool di Mani Pulite, dall’altra insinua dubbi. In questo caso, si racconta l’incompetenza di Di Pietro sulle rogatorie. E c’è Falcone che si lamenta: Di Pietro mi manda le rogatorie senza gli allegati…».
Quali erano i rapporti fra Mani Pulite e Falcone? «Li ha ben definiti il magistrato Ilda Boccassini, in una delle cerimonie in ricordo di Falcone: “Vi dovreste vergognare”, disse rivolta ai colleghi del pool, “voi non lo informavate sulle rogatorie o gliele mandavate incomplete: non vi fidavate”». Non si fidavano perché aveva lasciato Palermo per Roma? «Era partita la delegittimazione. Leoluca Orlando lo accusò di tenere nei cassetti documenti sui delitti eccellenti».
Una scena mostra il traffico che si ferma, a Milano, perché la gente riconosce Di Pietro. Succedeva? «Il clima era quello, folla plaudente per le strade. Giorgio Bocca scrisse che Di Pietro era l’espressione autentica della stirpe italiana, contadina, impegnata ad affrontare il male. Sono curioso di vedere se si parlerà — nella serie — delle indagini su Di Pietro».
Nell’ultima puntata andata in onda, si suicida l’industriale Mainaghi, arrestato e tenuto in carcere finché non fa il nome di un corrotto. Chi è Mainaghi? «La sintesi di molti imprenditori. Ho pensato a Ligresti, ma ci sono in lui Gardini e Cagliari, che si tolsero la vita. Mi aspetto che si parli, nelle prossime puntate, di Sergio Moroni, deputato socialista suicida (estate 1992) dopo aver ricevuto due avvisi di garanzia».
Cosa penserà un giovane di fronte a questa serie? «Sarà portato a credere che non cambi mai niente. La fiction andrebbe accompagnata da uno sforzo di divulgazione storica». La corruzione non è stata sconfitta. «Borrelli, il capo del pool, nel ventennale di Mani Pulite, chiese scusa agli italiani: “Non valeva la pena di cancellare il mondo precedente per quello attuale”». La corruzione non è cambiata? «Una volta era soprattutto finanziamento illecito dei partiti. Oggi addirittura — come dimostrano i casi Lusi (Margherita) e Belsito (Lega) — si ruba ai propri partiti! La corruzione si è “privatizzata”. Tuttavia, sono sempre i media a decidere chi vince le battaglie politiche, anche attraverso le notizie che filtrano dai pm».
Sta aspettando di comparire fra i personaggi di «1992»? «Vedremo. Mi dimisi dal ministero per l’avviso di garanzia sul “Conto protezione” del Banco Ambrosiano. Per due volte ho rinunciato alla prescrizione, poi alla fine la Cassazione l’ha stabilita. Sono stato condannato a 8 mesi per una parte della tangente Enimont, che io credevo fosse un contributo personale del manager Carlo Sama».

agaribaldi@corriere.it