In testa, malgrado i suoi guai

Centrosinistra
Quel che si prova quando vinci per autorete una partita che ormai davi per persa. O quando ricevi in regalo dal peggiore dei nemici il dono che non t’aspettavi. È più o meno così, forse – con un inconfessabile stato d’animo tra il sorpreso ed il sospeso – che il centrosinistra osserva i sondaggi (impubblicabili, ormai) che lo danno vincente alle prossime elezioni amministrative.
Ancora un paio di mesi fa, l’idea che il Pd ed i suoi incerti alleati di centrosinistra potessero riconquistare Roma e Napoli, confermarsi alla guida di Milano e Bologna e addirittura puntare alla vittoria nella mai dimenticata Torino, ecco, quell’idea sarebbe stata definita – con gentilezza – strampalata. Poi, però, sono scesi in campo gli avversari: che dopo settimane di forzosa pretattica, diciamo così, hanno reso nota la loro formazione. Senza offesa per nessuno: un disastro. Giocatori sconosciuti, quasi tutti esordienti. Tal Bernardo in porta, per dire. E un certo Michetti centravanti. I bookmakers, ovviamente, hanno subito cambiato le quote.
Si tratta di previsioni: magari poco attendibili, visto che quattro italiani intervistati su dieci non dicono se e per chi voteranno. Ma gli istituti di sondaggio (ed i bookmakers) vivono di previsioni. E così, il centrodestra favorito ha cominciato a perdere consensi. Il centrosinistra, invece, ne ha guadagnati. Il processo si è completato in meno di un mese, e la situazione si è capovolta: ora in testa (e in molti casi come sicuri vincitori) ci sono loro, i promessi perdenti. Cosa hanno fatto per meritarselo?
Intanto, non hanno fatto quello che fanno di solito: cioè, autofiaccarsi in guerre senza quartiere. Non che non litigassero, naturalmente: ma nei limiti del comprensibile. E soprattutto, hanno quasi interrotto qualsiasi attività quando hanno osservato il compiersi di un fenomeno per loro del tutto inedito: più gli avversari si dividevano, più il centrosinistra cresceva nei consensi. Paradosso incredibile, visto che da anni la piccola storia politica italiana racconta il contrario…
Di fronte all’improvviso e imprevedibile cambio di scenario, Letta ed i suoi alleati hanno avuto il merito – però – di farsi trovare preparati: diremmo naturalmente preparati. Buone candidature quasi ovunque, prima di tutto. E poi uno sforzo comune – altro inedito, in verità – per far fronte unito: se non al primo turno, almeno al ballottaggio. E se non proprio con tutti, almeno con i Cinquestelle a trazione contiana. Candidati-sindaci competitivi e il massimo dell’unità, dunque: due regole base per chiunque voglia affrontare elezioni locali con qualche chance di vittoria. Due regole che nemmeno un duro scontro tra leader dovrebbe portare ad infrangere.
Il Capitano e l’aspirante Capitana, invece, stavolta se ne sono dimenticati: e trasformando in una questione quasi d’onore – oltre che di potere – la scelta solitaria dei candidati di Roma e Milano, hanno messo a serissimo rischio la vittoria in almeno una delle due capitali d’Italia. Enrico Letta – uno del mestiere – ha annotato i primi sondaggi e ha ringraziato. E guardando all’orizzonte, perfino oltre il voto del 3 e 4 ottobre, gli è parso di vedere nuvole più chiare, quasi indicassero che il vento potrebbe davvero cambiare.
E naturalmente ha tirato un mezzo sospiro di sollievo. Altri segretari, infatti, in questa o quella tornata amministrativa ci hanno addirittura rimesso l’osso del collo. E non è solo questo: è che lui, Letta, il voto l’ha perfino complicato, decidendo di candidarsi per un seggio alla Camera nell’insidiosa e simbolica Siena. Drammatizzando la sua scelta: in purissimo e scivolosissimo stile renziano. «Se perdessi, ne trarrei le conseguenze». Non proprio «se perdo lascio la politica», ma qualcosa di assai vicino.
Dal momento di quella scelta in poi, il Partito democratico ha avviato – con professionalità – una narrazione non nuova, ma stavolta efficace: il Segretario è in pericolo, c’è bisogno di tutti. In realtà, i sondaggi (questi imprescindibili sondaggi…) non segnalavano – sin dall’inizio – una situazione compromessa. Certo, ci sarebbe stato da lavorare molto: ma quel seggio era già stato conquistato nelle elezioni precedenti. E in condizioni forse peggiori. Insomma: una partita non impossibile. E forse perfino meno insidiosa di quella che il Segretario avrebbe dovuto combattere candidandosi nell’altro collegio, alla periferia di Roma.
Comunque sia: l’obiettivo non nascosto della decisione di Enrico Letta è essere nell’emiciclo di Montecitorio quando, ad inizio dell’anno prossimo, si tenterà di eleggere un nuovo capo dello Stato. La partita – lo sa – è troppo delicata per poterla seguire efficacemente da lontano. Bisogna guardare i parlamentari negli occhi, mentre vanno a votare. Esserci nei conciliaboli decisivi. Controllare i gruppi. Ammesso che sia possibile…
Intanto, sono settimane che il Segretario – come da scuola – ripete: parlerò del Quirinale solo a gennaio. In realtà, ne ragiona e ne parla – come è giusto che sia – da molti mesi. È entrato a Montecitorio la prima volta vent’anni fa, ed ha chiaro che la scelta del nuovo presidente rischia di trasformarsi in un altro calvario: perfino peggiore di quello che portò alla dolente rielezione di Giorgio Napolitano. Il Parlamento si sta trasformando in un’arena ribollente: cambi di casacca, scissioni all’orizzonte, partiti spaccati, coalizioni divise… Ci vorrebbe un miracolo.
Ma questa, per fortuna, sarà un’altra storia. Per ora il Segretario attende che l’autogol degli avversari produca davvero un’insperata vittoria. Il primo miracolo, insomma, serve adesso. E se avvenisse, anche il secondo non somiglierebbe più a un miraggio.
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