In conclusione Parmenide la pensava come Einstein.

 

Infinito: senza fine e senza limiti. Senza forma, e quindi informe, mostruoso. «In principio era il Caos», insegnavano il poeta Esiodo e il filosofo Pitagora; poi le forze dell’ordine imposero dei confini a questo magma, e fu creato l’universo, che è uno spazio organizzato (questo significa kósmos ). I Greci non avevano molta simpatia per l’infinito, un concetto che per loro indicava soltanto l’assenza di ordine: una nozione incomprensibile e paradossale, a pensarci bene. Incomprensibile perché conoscere è delimitare, circoscrivere: ma come si fa a «comprendere» qualcosa che non ha fine? La nostra mente è finita; non può pensare, «tenere insieme», qualcosa di infinito. E paradossale, perché se lo spazio è divisibile all’infinito — sono i celebri esempi di Zenone — Achille non raggiungerà mai la tartaruga e la freccia il suo bersaglio. In un universo che si estende all’infinito, del resto, non avrebbe neppure senso parlare di alto e basso. Come potrebbe essere? Impossibile infatti, tuonava Aristotele, spiegando che l’infinito è sempre in potenza, ma mai reale: tutto è ipoteticamente divisibile all’infinito, ma ogni realtà, ogni corpo, alla prova dei fatti è sempre continuo, composto di parti finite. E finito è l’universo tutto, un sistema chiuso, perfettamente organizzato con la Terra al centro e il Sole, gli altri pianeti e le stelle che gli girano intorno, incastonati in tante sfere concentriche.

È lo spettacolo meraviglioso che Dante descriverà nella Commedia , ma che le ricerche astronomiche del Cinque e Seicento dimostreranno falso, smantellandolo pezzo per pezzo. Prima con Copernico e la negazione della teoria geocentrica. Poi con Giordano Bruno, deciso a sfondare tutte le barriere, il profeta di un universo senza più confini, straripante di mondi e di vita, in cui la Terra non occupa più la posizione centrale. Una scoperta tragica, per gli esseri umani che si trovavano ormai abbandonati su un minuscolo pianeta, «confinati in un angolo di questa immensa distesa» (Pascal), alla deriva nello spazio silenzioso e indifferente? Lo pensavano in tanti: persino Keplero, per il quale il pensiero dell’infinito «porta non so qual occulto orrore», mentre il poeta John Donne lamentava lo smarrimento del suo tempo, in cui «tutto è a pezzi». Niente di più sbagliato, replicava il solito Bruno (e con lui Spinoza e Nietzsche), con l’entusiasmo del prigioniero che vede cadere le pareti del suo carcere: in un universo infinito il centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte. In questo universo infinito ciascuno di noi è il centro, finalmente capace di appagare la propria brama di infinito, libero dai bassi «furori» che tengono incatenati alla miseria delle cose finite. La sua teoria divenne quasi una moda nei secoli successivi. Ma davvero aveva ragione lui? Davvero l’universo s’estende infinitamente?

Lucrezio, seguace di Epicuro e fra i pochi sostenitori di questa tesi nell’antichità, ne era convinto e lo spiegava con un esempio semplicissimo. Prendiamo la freccia di Zenone e avviciniamoci a questi ipotetici confini dell’universo; scagliamola: andrà oltre e così all’infinito. Dove andrebbe, altrimenti, se l’universo fosse finito? In cerchio, è la risposta di Albert Einstein, tornando alla fine al punto da cui è partita. È curioso: la teoria della relatività, con la materia che s’incurva su se stessa, non è poi così diversa dalle tesi di Parmenide, il padre della metafisica. L’essere è e il non essere non è; dunque non ci può essere nulla oltre all’essere: l’essere, la realtà, contiene tutto. Ma non per questo si estende infinitamente, perché non potrebbe essere qualcosa, se fosse incompiuto, indistinto, privo di limiti che lo definiscono. L’essere, la realtà, è senza fine, ma non infinito. È tempo di tornare ai presocratici, dunque, seguendo l’invito di Karl Popper? Forse; ma intanto la fisica quantistica ha complicato ancora una volta tutto: il dibattito continua. Per fortuna, viene da aggiungere. Perché quando la mente spazia per questi problemi prova un piacere dolce, in cui è bello naufragare. Aveva capito tutto, Leopardi.

Domenica 31 Dicembre 2017, La Lettura.

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