In balia della pandemia

Nella gestione sanitaria la linea di demarcazione tra la destra e la sinistra appare sempre più sfumata, e si profila un rischio per le istituzioni democratiche

Il 2 aprile del 2020, in piena e travolgente spallata della pandemia, a qualche giorno dalla truce sfilata di camion carichi di bare a Bergamo, e con il nord del Paese in ginocchio, assediato da un virus di cui si continuavano a ignorare dinamica e conseguenze, l’“Economist” – il settimanale guida del capitalismo finanziario, di proprietà della famiglia Agnelli, guidata dai fratelli Elkann – diede la linea politica al padronato continentale, con una copertina su cui campeggiava il titolo A Grim Calculus. Un calcolo rischioso ma indispensabile – intendeva l’organo delle tecnocrazie europee. Con quel testo si ammonivano le istituzioni a non indulgere ai sentimentalismi e a salvaguardare il funzionamento degli apparati industriali e commerciali.

Si tracciava il solco che da allora divise la sinistra dalla destra in tutto il mondo: il contagio, per i gruppi proprietari, era un’occasionale emergenza che non doveva e non poteva rallentare l’attività economica, “a qualsiasi costo”, per dirla con Draghi; mentre a sinistra si privilegiavano la sicurezza e le strategie pubbliche di controllo e contrasto alla diffusione del virus. Dopo due anni quella linea di demarcazione si è di molto sfumata. Gli imperativi categorici – dobbiamo innanzitutto garantire la sicurezza, salvare vite umane, non creare ambienti pericolosi – sono stati ammantati da condizionali, clausole, sospensive, farisaici richiami alla scienza. Mentre la destra incalza nonostante sia stata sbugiardata a tutte le latitudini.

Non solo i guitti come Trump o Bolsonaro – o le successive versioni dello scapigliato premier britannico Johnson che teorizzavano, nei loro vaniloqui immaginari, stati di immunità di gregge, mentre di greggi abbiamo visto solo la sequenza di vittime che si sono incolonnate dinanzi agli ingressi del pronto soccorso dei diversi ospedali di quei Paesi –, ma anche le titubanze con cui i governi francese, tedesco, olandese o italiano continuano a esitare dinanzi all’evidenza: il virus si frena con il distanziamento sociale e la rottura delle catene di relazione fra individui, e si stronca con una vaccinazione che abbia il tempo di maturare in uno stato di non aggressività delle varianti.

Una banalità che ancora non diventa politica, dopo quasi due anni dall’inizio di questo incubo, che di fatto cade proprio il 31 dicembre del 2019, quando fra mille sospetti e boati, l’Organizzazione mondiale della sanità rese pubblica la relazione fra le vittime accertate a Wuhan e il coronavirus che era stato rintracciato in quella città.

Il segno politico di un’iniziativa di destra è evidente e profondo. Si coagula nei sussulti dei “no vax”, e nelle estese proteste di ceti e corporazioni, il rifiuto di stare in uno spazio pubblico in cui la strategia di sicurezza sia condivisa e comune, e in cui la priorità sia proprio la salute di tutti e non l’arricchimento di pochi. In questo solco – che di volta in volta, prende in ostaggio anche icone della sinistra, da Rodotà a Foucault, fino a figure ibride come Ivan Illich – cadono frammenti consistenti della cultura democratica, come dimostra l’avventura in cui si sono imbarcati Cacciari, Agamben e Mattei, o come le stesse oscillazioni della Cgil l’estate scorsa sul green pass avvalorano in modo preoccupante. Mentre a sinistra si rimane coperti, si naviga sotto costa, ci si nasconde dietro la medietà dei governi nazionali o dell’Unione europea, che comunque non riescono a scrollarsi di dosso il Grim Calculus dell’“Economist”.

Eppure il quadro epidemiologico è drammatico. Siamo all’inizio di una spirale esponenziale che in tre giorni, nell’ultima settimana di dicembre, ha visto raddoppiare positivi e decessi, arrivando a superare le soglie critiche nei reparti di terapia intensiva. Ancora una volta ci stupiamo che il virus non si stanchi, non si plachi. E passiamo da un’illusione all’altra, usando come alibi i vaccini. In questi due anni di fallimenti politici e gestionali, solo i vaccini rappresentano la luce in fondo al tunnel. E solo i vaccini sono gli strumenti che i governi riescono a maneggiare. Eppure, sebbene con diversa intensità e premonizione, gli scienziati ci mandano ormai tutti uno stesso messaggio: vaccini necessari ma non sufficienti.

Andrea Crisanti lo ha scritto per primo, con semplicità e forza, nel libro che abbiamo pubblicato insieme nella scorsa primavera: Caccia al Virus (Donzelli editore, www.caccialvirus.it). “I vaccini sono strumenti indispensabili – scrive il microbiologo – ma non possono da soli fronteggiare una pressione estesa e instabile quale quella di un virus che muta continuamente; mentre si arriva a farmaci efficaci e gestibili più degli attuali, bisogna rompere la catena del contagio, frenando i contatti, impedendo situazioni promiscue e imponendo misure quali la mascherina Ffp2 in tutti i luoghi frequentati da estranei”.

Ma Crisanti, nell’agosto del 2020, aveva inviato al governo un programma di lavoro che oggi suona come profetico e terribilmente efficace. Insieme ai vaccini – sosteneva – “dobbiamo attivare una vigilanza territoriale che ci permetta, appena calano i numeri del contagio (e da allora sono diminuiti drasticamente due volte, ndr) di sviluppare una strategia di tracciamento capillare connesso a un’organizzazione di sequenziamento dei tamponi per mappare la dinamica del virus e cogliere in anticipo le sue variazioni”.

Nulla di questo è stato fatto: l’applicazione “Immuni” rimane una lapide senza voce, nessuna infrastruttura sanitaria è in grado di tracciare e sequenziare significativamente numeri adeguati di sospetti positivi. Siamo in balia della pandemia. E oggi, aggiunge Crisanti, siamo nel pieno di una tempesta perfetta in cui le due varianti in attività, Delta e Omicron, si presentano indipendenti l’una dall’altra. In questo modo – spiega lo scienziato – potrebbero combinarsi nello stesso paziente o colpire in successione dando origine a ulteriori variazioni sempre più imprevedibili e dunque nocive.

In un frangente come questo, il governo, che pure vanta un’efficace azione di vaccinazione, non riesce a staccarsi dalla semplice logistica vaccinale, e addirittura, fino a qualche giorno fa, ancora discuteva di tenere aperte le discoteche per capodanno. Siamo in una situazione micidiale, in cui il ricatto della destra, che corporativamente riesce ad aggregare una maggioranza poujadista e bottegaia, e usa la prossima elezione del capo dello Stato come spada di Damocle sulla testa del presidente del Consiglio, candidato in pectore, sta sguarnendo il fronte della difesa contro l’infezione – ma soprattutto sta chiudendo la sinistra in un’afasia mortale.

In questi giorni, nonostante gli annunci, il decisionista Draghi prende tempo, e sposta a dopo le feste tutti i provvedimenti. Invece di proclamare, come pure è stato fatto in Germania, un lockdown per i “no vax” e programmare un obbligo vaccinale per tutte le attività lavorative, gira al largo inventando contorte misure palliative, come l’esenzione dalla quarantena per i vaccinati anche con la terza dose, o contraddittorie misure come l’obbligo del green pass per i trasporti, dove appare assolutamente impensabile attendersi reti di controllo assiduo. Ma soprattutto – prolungando l’inerzia dell’esecutivo di Conte – non si interviene sul territorio, e si lasciano allo sbando quei brandelli di reticoli sanitari locali, come i medici di base o le farmacie, che vengono presi d’assalto dai positivi, e non hanno alcuno strumento per rispondere.

Drammatico si presenta ancora una volta (e qualcuno forse dovrebbe chiederne ragione invece di candidare l’assessora regionale alla sanità al Quirinale) il caso della Lombardia. In pochi giorni, in quella regione e a Milano in particolare, siamo arrivati a contare un terzo di tutti i positivi del Paese, con record per ricoverati e decessi.

Emblematica la storia di Roberta Pelachin, la vedova di Giulio Giorello, il più prestigioso filosofo della scienza italiano, morto nel giugno del 2020 a Milano per gli effetti di un’assoluta inadeguatezza del sistema sanitario locale. Ora tocca a lei, ancora a Milano, di ritrovarsi positiva nel gorgo di una completa assenza di assistenza e di presidi sanitari, nel centro della metropoli più avanzata del paese. In quindici giorni – dopo essere stata contagiata, benché vaccinata – non è riuscita ad avere il minimo aiuto dal suo medico di base che si è dichiarato assolutamente impotente, perché privo di mezzi o di riferimenti con il sistema ospedaliero. Roberta ha dovuto mettersi in fila per circa tre ore, dinanzi a una farmacia, nonostante fosse positiva e febbricitante, per riuscire a fare un tampone di controllo risultato ancora positivo. Ora attende gli eventi sperando di non ripercorrere la via crucis del marito, quando, dopo un mese di chiamate disperate a medici e ospedali, fu ricoverato ormai irrimediabilmente sfibrato dalla malattia.

La politica vive una stagione davvero preoccupante, in cui non riesce a dare la risposta più elementare alla domanda che intacca la base di uno Stato democratico: quella di assicurare equamente la sicurezza dei cittadini. Dietro a questo angolo, ci sono ancora dolori e sofferenze per molti e un destino tenebroso per le istituzioni.

 

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