IL VOTO FRANCESE E IL DESTINO DELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI

di Massimo Giannini
Come le cinque granate serbe fatte esplodere dal generale Miloševi? il 28 agosto 1995 sulle donne e gli anziani in fila per la spesa al mercato di Sarajevo, anche il missile Tochka da due tonnellate lanciato sulle famiglie lungo i binari della stazione di Kramatorsk segna sulla carta un punto di non ritorno. Una mano disumana, russa o ucraina che sia, ha dedicato quel mostro letale da due tonnellate “ai bambini”. Non si sa se per colpirli o difenderli. Intanto, li stermina. Allora quella strage mostruosa innescò la reazione della torpida comunità internazionale, e i caccia della Nato misero fine al conflitto nella ex Jugoslavia. Oggi, persi in questa nuova giungla della Storia, a una carneficina persino più barbara possiamo rispondere solo con una guerra “per procura”. Armiamo la resistenza bellica di Zelensky, aggrediamo la resilienza economica di Putin. Nel frattempo, aspettiamo e speriamo. E lasciamo che ci graffino l’anima le immagini delle fosse comuni e dei civili massacrati per strada, i racconti delle ragazze torturate e stuprate e quelli dei profughi in fuga.
Sul piano diplomatico, nonostante i giusti appelli del “pacifismo astratto” di cui scriveva Bobbio e i pensieri complessi del terzismo peloso che schiumano dalla tv, di più non riusciamo a fare: il Tiranno non si siede ai tavoli, se non a quelli finti e magari impregnati da un sinistro odore di polonio nell’aria. Sul piano militare, nonostante la voglia matta di menare le mani degli opinionisti con l’elmetto, di più non possiamo fare: stavolta non abbiamo Tomahawk da far decollare, se non a costo di far scoppiare la Terza Guerra Mondiale.
Sul piano energetico, nonostante l’evidente controsenso di una fornitura di gas russo che la Ue paga un miliardo al giorno e che il Cremlino usa per finanziare la sua sporca guerra, di più non sappiamo fare: l’Europa tedesca tollera al massimo un embargo del carbone, e l’intendenza segue come sempre.
Mario Draghi ha fatto una domanda inopportuna, in conferenza stampa: “Cosa scegliete tra la pace e i condizionatori d’aria?”. L’ha detta male, perché un governo ha il dovere di dare risposte concrete alla sua gente e perché le sanzioni quasi mai sono bastate a far finire un conflitto bellico. Lucio Caracciolo ce lo ha opportunamente ricordato, nel fuoco di questa tragica crociata di Santa Madre Russia contro l’Ucraina. E solo nella parallela e patetica guerricciola delle pseudo-intelligenze tricolori questo giudizio storico basta per cucire sulla giacca di uno dei più autorevoli esperti di geopolitica internazionale la “Z” infame della Brigata “Putinversteher” guidata dall’ineffabile professor Orsini. Tant’è: nella lunga notte della ragione italiana, purtroppo, tutte le vacche diventano nere.
Dunque, non è tempo di scimmiottare il Duce di “burro o cannoni”. Ma l’alternativa tra “pace e condizionatori”, al di là delle analogie e delle simbologie, interroga comunque la nostra coscienza di occidentali. Se, com’è giusto, non vogliamo rischiare una terribile escalation nucleare, vogliamo almeno provare a privare Mosca di quei 320 miliardi che gli versiamo ogni anno per avere il suo gas? Se non vogliamo morire per Kiev, scendendo in trincea con i soldati del Battaglione di Azov, siamo almeno disposti a soffrire per Kiev, rinunciando a qualche nostra comodità materiale? Su questo si può e si deve riflettere, con realismo e senza furori ideologici. Ben venga la mobilitazione internazionale di “Stand Up for Ukraine”, ben vengano i fondi per i rifugiati che scappano dagli orrori di Makariv e di Chernihiv. Ma anche questo non basta, di fronte alla ferocia dei militari russi, dei macellai ceceni di Kadyrov e adesso anche dei mercenari della “Wagner”.
Stiamo vivendo un cambio d’epoca. Tutto quello che accade intorno a noi ci riguarda. Come umani, come cittadini, come europei. Oggi si vota in Francia. Non ha torto Enrico Letta, a twittare «se vincesse Marine Le Pen, sarebbe il più grande successo di Putin». La leader del “Rassemblement National” andrà al ballottaggio con Macron. Se dovesse affermarsi tra due settimane, il cuore d’Europa ne uscirebbe ferito a morte. Nell’ora più buia, con Putin che invade uno “Stato fratello” in nome del suo disegno neo-imperiale e porta il suo attacco all’Occidente “materialista e decadente”, la seconda democrazia dell’Unione finirebbe nelle mani di una forza politica ultra-nazionalista, anti-europea e filo-russa. Non è uno scenario improbabile. In questi cinque anni Macron ha provato a riunire la Francia e a ridare all’Eliseo uno spirito “jupiterien”, come si disse nel maggio 2017. A risacralizzare la funzione del Capo dello Stato e a ripristinare la solennità del potere presidenziale. A essere appunto come Giove: “dio tra gli dei”, monarca della Quinta Repubblica, nel solco di De Gaulle e Mitterrand. Ma non ce l’ha fatta. Il convulso protagonismo diplomatico di queste settimane, tra continui vertici con la Casa Bianca e inutili contatti con il Cremlino, non è bastato. Sul fronte opposto Le Pen, scavalcata a destra e dunque aiutata dalla campagna estremista e xenofoba di Eric Zemmour, ha potuto rivestirsi di un abito di scena fintamente moderato. E ora, forte di questo “camouflage”, specula politicamente sulle solite paure e i soliti disagi sociali che hanno fatto la fortuna dei populisti in quest’ultimo decennio.
Quello che preoccupa di più, come scrive il direttore di “Le Monde” Jérôme Fenoglio, non è solo il fatto che l’eventuale affermazione di Le Pen collocherebbe la Francia nella sfera d’influenza peggiore: in Europa a fianco di Putin, in America a fianco di Trump. Ma è il retroterra socio-culturale che può rendere possibile questa “svolta”: cioè ancora una volta l’usura democratica, il disincanto delle masse, la secessione delle opinioni pubbliche. Secondo Ipsos-Soprasteria, il 74% dei francesi si dichiara “non interessato” a queste elezioni. L’affluenza alle urne potrebbe risultare persino più bassa di quella del 21 aprile 2002, quando votò solo il 28%. Eppure, dopo i disastri del Covid, cos’altro deve succedere per spingere i cittadini ai seggi, se non una guerra che ci riporta all’incubo atomico e alla Cortina di Ferro, un’offensiva dell’Orso post-Sovietico contro il liberalismo e le società aperte, una recessione economica, una crisi energetica e un’emergenza climatica riacuita dal ritorno al fossile? Cos’altro serve ai popoli per mobilitarsi e chiedere alle élite cosa sono pronte a fare per difendere la nostra libertà, per proteggere la nostra sanità, per tutelare il nostro pianeta?
Ma è questo che rischiamo, qui ed ora. Certo, anche in Occidente c’è un gigantesco deficit di politica da colmare. Ed è assurdo cavarsela con la solita frase di Brecht: «l Comitato Centrale ha deciso, il popolo non è d’accordo, il Comitato Centrale ha deciso di cambiare popolo». Tocca alle classi dirigenti ritrovare la connessione con gli elettori. Ma tocca anche a noi cittadini ritrovare la voglia di partecipare, di contare e di contarci. Tanto più in un momento in cui i valori in cui diciamo di credere sono così pericolosamente minacciati da un regime autocratico che ha inoculato tossine, non solo “culturali” e digitali, nelle vene dei partiti sovranisti europei. Viviamo ormai in quello che Gideon Rachman – mettendo assieme Putin e Xi Jinping, Modi e Orbán appena rieletto – definisce sul Financial Times “il secolo autoritario”. Dobbiamo sapere che le democrazie non sono un destino, ma una scelta che va difesa e rinnovata ogni giorno. Tra un anno, o forse prima, si vota anche in Italia: la campana di Parigi suona anche per noi.
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