I diritti umani per sfidare le autocrazie

di Maurizio Molinari
Con il voto dell’Onu sulla sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti Umani il tema del rispetto delle libertà fondamentali degli individui è tornato al centro delle relazioni internazionali dopo oltre venti anni di quasi totale oblio, dovuto alla scelta delle democrazie di far prevalere la più gelida realpolitik nei rapporti con autocrazie e dispotismi di ogni colore e Continente.
A tre anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1948, fu la terza sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu, riunitasi a Parigi, ad approvare la Dichiarazione universale sui Diritti Umani per sancire nella forma più solenne che gli immani crimini commessi dai nazifascisti non sarebbero più stati tollerati.
Fondata sui principi del Bill of Rights della rivoluzione americana e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese, la Dichiarazione universale dei Diritti Umani — che ebbe come paladina Eleanor Roosevelt, moglie del presidente americano Franklin D. Roosevelt scomparso pochi anni prima — prevede nel suo primo articolo che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti, sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Venne approvata con il voto di 48 dei 58 Paesi dell’Onu di allora con l’astensione del Sudafrica dell’apartheid, dell’Arabia Saudita degli sceicchi e di una pattuglia di Paesi comunisti guidati dall’Unione Sovietica (mentre la Cina votò a favore).
Da quel momento i diritti umani divennero il più importante tassello dell’arsenale delle democrazie nella sfida al comunismo sovietico durante la Guerra Fredda perché consentirono all’Occidente di diventare il difensore delle libertà individuali dei cittadini dei Paesi dell’Est, sistematicamente violate dal Cremlino e dai suoi leader vassalli. Da qui l’importanza degli accordi di Helsinki del 1975 quando la distensione Est-Ovest ebbe inizio grazie ad un’intesa che affiancava il riconoscimento dei confini esistenti in Europa — frutto della realpolitik — all’articolo VII sul “rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Fu quello scambio, concordato fra il presidente Usa Gerald Ford e il leader sovietico Leonid Breznev, che consentì alle democrazie di aprire un primo varco nella fortezza sovietica, ottenendo sulla carta un impegno a proteggere le libertà individuali che diede ossigeno al dissenso sovietico, generò la stagione dei samizdat (le pubblicazioni illegali) e i manifesti degli oppositori nell’Est, fu determinante per la mobilitazione popolare che portò alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e all’implosione dell’Urss due anni dopo. Se non ci sono dubbi sul fatto che la Strategic Defense Initiative di Ronald Reagan dimostrò all’Urss di Mikhail Gorbaciov l’irraggiungibile vantaggio americano nella corsa alle armi, non ve ne possono essere anche sul fatto che fu l’impegno delle democrazie sui diritti umani a gettare un ponte verso i popoli dell’Est, spingendoli a ribellarsi al comunismo sovietico. Nelle parole dell’ex dissidente Natan Sharansky «quando eravamo nel buio nei gulag sapevamo che vi battevate per noi e questo ci diede la forza di resistere». Per lo stesso motivo Giovanni Paolo II si recava spesso in viaggio in Polonia: attestando con la sua presenza quei diritti alla libertà di fede che il comunismo negava.
Il punto è che, dissolta l’Urss, l’impegno delle democrazie sui diritti umani è durato — fra molte esitazioni — poco più di un decennio, passando attraverso un tardivo intervento contro il genocidio in Ruanda e le operazioni militari nei Balcani per proteggere bosniaci e kosovari dalla pulizia etnica perseguita dal nazionalismo serbo di Slobodan Milosevic.
Ma dall’inizio del nuovo secolo l’avvento della globalizzazione ha progressivamente ridotto l’attenzione delle democrazie sui diritti umani.
Governi, Parlamenti e opinioni pubbliche — su entrambi i lati dell’Atlantico — hanno fatto prevalere sempre più le ragioni della realpolitik nei rapporti con despoti, tiranni ed autocrati.
L’idea di una crescita globale capace di progredire nell’interesse di tutti ha fatto precipitare l’attenzione per quei diritti che le democrazie avevano spinto l’Onu a garantire dopo la sconfitta di Hitler ed avevano poi sostenuto durante la Guerra Fredda. Il risultato è stato chiudere gli occhi per oltre venti anni sulle estese violazioni dei diritti umani in nazioni come Cina e Russia, Iran e Nord Corea, Venezuela e Cuba, Siria ed Arabia Saudita.
Consentendo ad ogni despota e autocrate di irridere l’impegno dell’Occidente sui diritti, facendo maturare l’immagine di democrazie talmente attirate dai profitti economici da essere incerte e deboli sui valori, dunque più vulnerabili.
La Russia di Vladimir Putin è forse la nazione che più ha tratto vantaggio dalla miopia delle democrazie sui diritti: il leader del Cremlino ha usato la violenza più feroce in Cecenia; ha aggredito con le armi Georgia, Crimea e Donbass; ha avvelenato oppositori e dissidenti in patria e all’estero; ha gettato in prigione i rivali politici; ha varato leggi contro i diritti Lgbt; ha inviato legioni di mercenari a fare guerre contro civili in Siria, Libia e Sahel; ed ha consentito a bande di pirati cybernetici di operare liberamente sul web. Il tutto nel continuo, assordante, silenzio di leader americani ed europei che affascinati dalla possibilità di “reset con Mosca” hanno continuato ad offrire concessioni politiche ed accordi economici.
Fino agli ultimi giorni precedenti l’invasione dell’Ucraina, quando Joe Biden ed Emmanuel Macron chiamarono Putin per proporgli un negoziato sulla “nuova architettura di sicurezza europea” che lui aveva oramai deciso di perseguire con la forza militare. È stata dunque la ritirata delle democrazie sui diritti umani a far percepire a Putin che erano oramai talmente flaccide da poter essere umiliate su un campo di battaglia europeo.
Ma la resistenza degli ucraini è stato l’imprevisto che ha rovesciato gli esiti dell’invasione russa ed i crimini di guerra commessi dalle truppe di Putin hanno riproposto, in maniera lampante e indiscutibile, la necessità per le democrazie di riprendere la battaglia di Eleanor Roosevelt e riportare la difesa delle libertà individuali al centro degli interessi nazionali e della propria visione del mondo. Perché in ultima istanza ciò che distingue le democrazie dai despoti di ogni colore e stagione è il rispetto degli individui.
Tornare su questo terreno oggi può essere decisivo, come lo fu dopo gli accordi di Helsinki, per gettare un ponte verso tutti quei cittadini russi che amano i propri diritti e desiderano vivere in un Paese capace di rispettarli.
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