Maggiorenne: in questo 2022 la legge che ha istituito il Giorno del ricordo compie diciott’anni. È stata votata a fine marzo del 2004 per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Dunque 10 febbraio, la scelta cadde su quella data nel rimando all’anno, era il 1947, che vide la firma sui trattati di pace di Parigi.

Doveva essere la fine, almeno nella forma, dei postumi della guerra sul confine dove il “dopoguerra” si predisponeva a farsi narrazione infinita. Quella data aveva sancito il passaggio alla Jugoslavia delle terre istriane, del Quarnero (o Quarnaro), di Zara e dunque di un’area contesa e sino a prima del secondo conflitto in larga misura italiana.

Circa trecentomila persone, la quasi totalità della presenza italiana, e tra quelli cinquantamila sloveni e croati, furono spinti ad abbandonare case, campi, i luoghi della propria vita e di tradizioni familiari radicate. Lo fecero valendosi del diritto di opzione che il Trattato prevedeva con la possibilità di trasferirsi in Italia, molti lo fecero soprattutto a fronte delle pressioni e intimidazioni subite.

L’accoglienza della madre patria fu tutt’altro che calorosa. Ci volle un decennio perché lo Stato intervenisse favorendo la piena integrazione dei profughi giuliano-dalmati nell’Italia del boom. Il che non bastò a sanare la “ferita della memoria” al punto che sulla pagina sanguinosa di quel confine a lungo calò il silenzio.

Quella linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico della storia

Pesarono interessi geopolitici, la Jugoslavia col suo profilo di “non allineata” era una zona cuscinetto tra questa parte d’Europa e il blocco sovietico, né mancavano scambi commerciali, il tutto nella logica di una buona stabilità da perpetuare anche in vista del “dopo Tito”.

Lasciare che la polvere coprisse le pagine più dolorose e cruente rispondeva a parecchi interessi. Quel mutismo complice accomunava il partito che governava da Roma, ma pure l’opposizione comunista che sulle scelte compiute nell’alto Adriatico non poteva dirsi mera spettatrice. Il tutto, appunto, sino al 2004 e all’istituzione del Giorno del ricordo: da allora non vi è stata una sola delle ricorrenze libera da toni accesi sulle radici di una celebrazione che avrebbe dovuto scavare e ricostruire il lungo conflitto tra opposte aspirazioni nazionali (di italiani, sloveni, croati delle più diverse appartenenze e ideologie), e che ha finito, invece, col sovrapporre la memoria dello scontro tra fascismo e antifascismo. Ma si può riflettere su una celebrazione entrata nel calendario civile del paese con un di più di rigore e lucidità?

Farlo si deve, o almeno conviene, e per riuscirci Raoul Pupo, storico triestino, diventa una bussola preziosa. Sfogliando la sua ultima ricognizione del tema (Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza 2021) ha senso partire dalla citazione in apertura di Predrag Matvejevič: “L’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”. Ci si può odiare nell’intimità? Possono generarsi sino a deflagrare conflitti di brutalità indescrivibile entro un perimetro che nei secoli ha visto combinarsi lingue, dialetti, religioni, costumi, identità? Ahinoi, sì.

E’ complicato s analizzare le violenze novecentesche in quel triangolo d’Europa se ci si rinchiude in una storia “nazionale”, che sia quella italiana o slovena o croata. Solamente considerando “punti di vista diversi” si possono svelare le dinamiche di un territorio plurale che nell’arco lunghissimo del “secolo breve” ha convissuto con varie appartenenze, Stati e governi diversi.

L’altro corno del problema è rappresentato dalle parole o formule utilizzate. Anche su questo Raoul Pupo fissa un glossario utile. A cavallo del confine orientale, prima, durante e dopo la guerra non vi sono state pagine di deportazione, espulsione o, peggio, “pulizia etnica”, termine per altro generato dagli eventi di un tempo storico successivo.

La definizione che appare più corretta è un’altra, lì si sono prodotti «fenomeni di sostituzione nazionale», il che non paia una reductio della portata di quei fatti, fosse solo perché è stata una delle strategie applicate in angoli diversi del continente su come “accomodare” persone con appartenenze nazionali diverse in un unico Stato.

Il problema delle foibe è il paragone con la Shoah

Dapprima il fascismo determinò l’allontanamento di migliaia di cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane, successivamente furono gli accordi di pace a indurre l’Esodo dall’Istria di molte migliaia di cittadini italiani costretti a lasciare case e beni tra gli anni ’40 e ’50. Detto ciò, perché all’incrocio delle due guerre mondiali, e prima e dopo quelle tragedie, la Venezia Giulia ha vissuto un di più di violenza?

La risposta è in un’altra formula: “nella lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella nazionale no”. Il nazionalismo finisce con l’essere il migliore concime per disseminare odi e contese destinati prima o poi a deflagrare. E così è avvenuto.

I POGROM

A ridosso della Grande Guerra e prima del fascismo Trieste faceva convivere una media borghesia dalle tendenze irredentiste, un proletariato “internazionalista” e un terzo ceppo di popolazione fedele all’Austria Felix (Viva l’A e po’ bon, rimarrà moto popolare dove la A stava proprio per l’Impero decadente).

All’indomani della guerra sarebbe stato il trattato di Rapallo, novembre 1920, a disegnare i confini tra Italia e Jugoslavia, anche se quattro anni più tardi avrebbe provveduto quello di Roma ad annettere lo Stato Libero di Fiume, previsto sulla carta e impedito nel nascere dall’avvento di Benito Mussolini.

Sono anni tormentati, il regime fascista con la sua rete di servizi individua nel Partito socialista l’avversario da stroncare per il sospetto di essere il collante tra slavi e nostalgici del patronato viennese.

Su entrambi i fronti si crea l’humus perfetto per il primato delle componenti massimaliste e violente, lo squadrismo nazionalista ha apparecchiato il tavolo e non mancherà di sedervisi con un anno d’anticipo rispetto alle ronde fasciste.

In quel contesto s’inserisce la parabola fiumana di Gabriele D’Annunzio, ma su quella si sono riempiti gli scaffali, qui basterà ricordare il pogrom anti-croato di cittadini e legionari sedato dal Vate con l’argomento di “eccessi spiegabili in un primo impeto di passione”, ma non giustificabili nella loro sistematicità.

Sarà il 13 luglio 1920, però, la data discrimine, quando si consuma l’assalto delle squadre fasciste e l’incendio dell’Hotel Balkan (il Narodni Dom, sede di organizzazioni e istituzioni slave a Trieste, vuol dire slovene, croate, serbe…).

È l’avvio di un altro pogrom, stavolta anti-sloveno, che Boris Pahor descriverà in chiave letteraria nella novella Il rogo nel porto, le camicie nere vivono le spedizioni punitive contro banche, giornali, associazioni come “spettacolo di redenzione”, gli sloveni si trovano catapultati nell’incubo che si prolungherà per il quarto di secolo a seguire. Per loro quella data scolpirà il “trauma originario” della comunità nel suo legame con lo Stato italiano.

Che la storia di territori plurali sia complicata può confermarlo il fatto che solo un anno e mezzo prima dell’incendio del Balkan, nel gennaio del 1919 erano state formazioni slovene guidate da Rudolf Maister a sparare sui manifestanti tedeschi che nella piazza di Maribor rivendicavano l’annessione alla nuova Austria.

Tornando alla Trieste del 1920, gli episodi di violenza proseguirono sotto lo sguardo indulgente delle forze dell’ordine: lo squadrismo era un aiuto contro il pericolo dell’eversione bolscevica.

La benevolenza dell’ordine costituito fece della Venezia Giulia una tra le regioni dove il fascismo agì con esiti più pesanti, solo in quella prima stagione 134 edifici incendiati, di questi un centinaio erano circoli di cultura, alcune case del popolo, oltre una ventina le Camere del lavoro e diverse cooperative.

LA VIOLENZA SUI CORPI E LE ANIME

In questa ricostruzione tra le date a merito di citazione un posto spetta all’aprile del 1927 quando il regime estende all’alto Adriatico le disposizioni già previste per il Tirolo meridionale, si tratta della “restituzione in forma italiana” dei cognomi deformati in passato dalle autorità austriache.

È l’avvio di una “massiccia italianizzazione” condotta dagli uffici senza “consultare gli interessati”. Poteva così capitare ai fratelli Vodopivec, uno residente nel capoluogo, l’altro a Monfalcone di trovarsi battezzati rispettivamente Bevilacqua (traduzione letterale del cognome sloveno) e Vodini.

Il tentativo di sradicare l’identità di un popolo o parte di esso avanzò lungo il doppio binario di una progressiva assimilazione delle anime mai del tutto scollegata da una dose di violenza sui corpi. Il fascismo fu questo.

Tra le vittime privilegiate di quella stagione repressiva moltissimi cattolici, compresi preti, parroci, vescovi, con l’esplosione dell’antisemitismo in una città, Trieste, ricca di una comunità ebraica radicata e tra le più importanti. La durezza del regime a organico pieno (pubblica sicurezza, carabinieri, Milizia) costituì nei fatti uno stato di polizia dove violenze, incarcerazioni, schede segnaletiche sorressero un apparato repressivo feroce quanto efficace.

Il fronte sloveno non risultò compatto, nell’isontino avrebbe conosciuto persino una formazione fascista (Vladna stranka, Partito governativo) dedita a relazioni con l’Ovra (la polizia segreta del fascismo).

Non vi è dubbio però che gran parte degli sloveni si oppose al fascismo e la conferma viene dai movimenti di resistenza armata, tra questi spicca l’acronimo goriziano del Tigr (Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka). Assieme a Borba (la versione triestina) stabilirono collegamenti con i servizi jugoslavi per lo scambio di armi e materiale di propaganda.

In particolare, un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio del 1930  presso Il Popolo di Trieste, quotidiano fascista, uccidendo un redattore. All’attentato seguirono centinaia di arresti e ottantasette tra questi furono deferiti al Tribunale speciale che dopo un processo farsa comminò quattro condanne a morte.

Uno dei quattro, Ferdo Bidovec, era di madre italiana, come per altro slovena era la madre di Guglielmo Oberdan a conferma che “per i patrioti di frontiera il sangue non conta un bel nulla”.

I quattro vennero fucilati all’alba del 6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza in un luogo destinato a divenire dall’immediato dopoguerra “un sacrario” dell’antifascismo sloveno.

A metà luglio di due anni fa il presidente Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno, Borut Pahor, si sono raccolti mano nella mano dinanzi alla lapide che ricorda le vittime e lo hanno fatto, segno esplicito di una volontà di pacificazione, subito dopo avere reso omaggio alla più nota foiba di Basovizza, perché nel tracciare la rotta di questo Giorno del ricordo è a quella pagina che dobbiamo arrivare, senza scorciatoie.

LA GUERRA

La seconda guerra mondiale scompose assetti, etnie, comunità. L’offensiva tedesca sulla Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò. Croazia, Slovenia, Bosnia, Montenegro o Voivodina non sarebbero mai state regioni controllate, tanto meno pacificate.

Gli ustaša, nazionalisti fanatici, avrebbero avviato la persecuzione di due milioni di serbi residenti nel nuovo stato croato perseguendo al contempo il genocidio di ebrei e rom, solo nel campo di sterminio di Jasenovac a trovare la morte furono in centomila.

Sul fronte opposto, dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica, a giugno del ’41, i comunisti guidati da Josip Broz detto Tito animarono la resistenza anti-tedesca, lo fecero agendo in autonomia, fuori dalla raccomandazione di Stalin per la creazione di larghi fronti antifascisti.

I serbi, distribuiti tra il Protettorato di Serbia occupato dai nazisti, lo Stato croato, la Dalmazia e il Montenegro dove di stanza stavano gli italiani, diedero vita a un movimento unitario, i četnici, “monarchici e sostenitori di un progetto ‘grande serbo’” ovviamente in conflitto con gli ustaša, “militanti dell’idea ‘grande croata’ in una piena logica di guerra civile”.

I partigiani combattevano entrambe le fazioni, četnici e ustaša oltre agli occupanti italiani e tedeschi. Tra il ’41 e il ’43 le azioni repressive italiane contro le formazioni partigiane non esitarono a reprimere quantità di civili, non furono “danni collaterali”, ma una strategia mirata a isolare qualunque focolaio di resistenza.

Internamenti di massa a scopo di prevenzione condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di persone, accadde a Gonars in Friuli o nell’isola di Arbe/Rab in Dalmazia.

DOPO L’8 SETTEMBRE

8 settembre 1943: anche la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del paese, comandi militari e truppe allo sbando. L’Istria piomba nel caos coi soldati italiani in fuga.

La rete dei Comitati popolari di liberazione (Cpl) a settembre proclama la volontà dell’Istria di annettersi alla Croazia e, per suo tramite, alla “fraterna comunità dei popoli della Jugoslavia”.

La contro-repressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo delle stesse autorità partigiane con atti di sadismo. Nelle campagne attorno a Parenzo si consuma “una vera e propria jacquerie” coi contadini croati contro archivi comunali, simbolo di uno Stato oppressore, e vendette consumate sui loro vecchi “padroni”.

L’uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana seviziata e infoibata nell’autunno del ’43, resta una delle pagine atroci di quella stagione. Foibe, dunque, in terra istriana ve ne sono diverse usate allo scopo, da quella di Vines verranno recuperate oltre ottanta salme.

Il computo delle vittime non può che risultare impreciso, la storiografia lo quantifica attorno al mezzo migliaio, “un eccidio di grandi dimensioni paragonabile per eccesso alle più note stragi naziste in Italia”.

Resta la frattura, l’evento in sé, destinato in corrispondenza al ritrovamento dei corpi a trasformare rapidamente il fatto oggettivo e tragico in un “costrutto mitico che diviene parte integrante dell’identità collettiva degli italiani d’Istria”.

I semi di una narrazione contesa proiettata in tutto il dopoguerra tra “opposte retoriche, vittimiste e negazioniste” sono interrati e germoglieranno una malapianta.

La tesi estrema è netta: le foibe sono “la prima tappa di un disegno di eliminazione violenta della presenza italiana nella penisola, destinata a divenire parte integrante della Jugoslavia comunista”.

Sappiamo oggi che non era così e che il punto stava di nuovo nella volontà di una “sostituzione nazionale”, concetto distinto e diverso dal genocidio. Ciò non toglie che alla fine della mattanza in quel lembo del continente tra infoibati e uccisi dai nazisti non vi era famiglia che non piangesse un lutto.

Resta il dato storico di un secolo, il ‘900, angoscioso e terribile con governi diversi per ideologia e impianto politico accomunati dalla volontà di creare Stati etnicamente omogenei.

E Trieste? A Trieste il comando passa in mano tedesca, con le province a ridosso delle Alpi orientali (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana) accorpate nella Zona di operazioni litorale (Ozak) dove “la sovranità italiana è puramente nominale”.

Siamo nella parte finale della guerra e il governo di Salò non ha alcun potere su sindaci, prefetti, legislazione. Nel capoluogo giuliano l’imprenditoria si presta a collaborare anche in difesa dei propri interessi finanziari e assicurativi.

Nonostante nell’agosto del ’44 il vertice italiano del PCd’I e buona parte del gruppo dirigente complessivo vengano arrestati ed eliminati, nei mesi successivi la resistenza partigiana si organizza tra le brigate Garibaldi, comuniste, e quelle Osoppo, azioniste e cattoliche. Le violenze sono terribili.

Nel mese di aprile, siamo sempre nel ’44, i tedeschi compiono una rappresaglia nel villaggio di Lipa, in provincia di Fiume. Una colonna scortata da ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri, le vittime saranno 280.

Nello stesso mese a Opicina, sul Carso triestino, i partigiani uccidono sette militari in un cinema che proietta documentari di propaganda, un secondo attentato nel cuore di Trieste produce altre cinque vittime tedesche.

La rappresaglia si consuma nello schema classico del 10 a 1. Settantuno ostaggi sono fucilati dopo l’attentato di Opicina, cinquantuno per quello consumato in città con i corpi appesi a monito della popolazione nell’androne di quello che sarà il conservatorio di musica. Ma il peggio non è neppure lì.

Dall’ottobre del ’42 all’aprile del 1945 opera a Trieste il Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), la famigerata Risiera di San Sabba, luogo destinato a divenire ben altro che una prigione.

È gestito da SS tedesche, austriache e ucraine, annovera “specialisti” del ramo, carnefici nazisti responsabili di buona parte della Shoah della Polonia, Christian Wirth, detto “il selvaggio” o Kurt Franz, “il più sadico torturatore di Treblinka” e Odilo Globočnik a cui si ascrivono almeno un milione e mezzo di morti. Circa settecento ebrei triestini passeranno da quelle celle (oggi monumento nazionale), se ne salverà una ventina.

LA RICONCILIAZIONE

Ma è sul dopoguerra che Trieste proietta la sua ombra. Il nuovo vertice del PCd’I passato in mano alla componente slovena del partito lascia agli jugoslavi la possibilità di occupare le aree di frontiera (ottobre del ’44), quest’ultimi “si impegnano a trattare gli italiani come una minoranza nazionale col massimo dei diritti”. Soluzione ambigua.

Nel frattempo, le divisioni tra le formazioni partigiane si consumano come nell’episodio della strage alla malga di Porzȗs, febbraio 1945, quando un reparto garibaldino stermina una brigata Osoppo.

Il Primo maggio del 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste, a guidare l’operazione i vertici dell’Ozna, la polizia segreta di Tito. Prelevano singoli o piccoli gruppi anche se l’ampiezza delle operazioni non sfugge a nessuno. Ancora Raoul Pupo descrive i numeri, tra Gorizia e Trieste gli arrestati sono tra i dieci e i dodicimila, non tutti saranno uccisi, ma questo lo si verrà a sapere solo in seguito.

L’indicazione è arrestare repubblichini, fascisti, četnici, squadristi e spie, collaborazionisti, agenti della questura e dell’Ovra, membri della X Mas, delatori di partigiani. L’esito è una sequenza di uccisioni in molti casi senza alcuna imputazione.

Volendo semplificare, “chi porta le armi o ne risponde ai comandi jugoslavi oppure è un nemico, a prescindere dall’uso che ne abbia fatto assieme o contro i tedeschi. Anzi, se contro i tedeschi si è battuto, ma non si è posto agli ordini dell’armata jugoslava, è ancor peggio di un nemico, è un fomentatore di guerra civile”.

Il che spiega i motivi che condussero a morte finendo infoibati anche militanti della resistenza triestina, segnata dalla frattura dell’ala comunista a quel punto appiattita su posizioni filo jugoslave.

Sono settimane tragiche, il giudizio storico dice come non si consumò una caccia indiscriminata all’italiano poiché in quel caso le vittime sarebbero state decine di migliaia e non tra le quattro e le seimila, numero terribile egualmente, ma non di un genocidio o di una “pulizia etnica” si trattò. Fu altro. Una orribile coda di una guerra che aveva una parabola dietro a sé. Una resa dei conti venata dell’odio nazionalista? Certo, fu anche questo, ma quando ci si muove su una terra di frontiera le risposte non sono mai lineari.

IL DOVERE DELL’ANIMA

L’Esodo dall’Istria e Dalmazia, ciò che il 10 febbraio ogni anno ricorda, è l’ultimo capitolo di questa tormentata storia. Per anni su quella pagina è calato il silenzio. In parte perché quelle donne e uomini sradicati dai luoghi di una vita, da case, campi, vigne, cortili, arrivarono nell’Italia che si affacciava al boom economico e una storia di soprusi e violenze stonava col clima del tempo. In parte per una lotta politica che ancora contrapponeva campi ideologici e, nonostante la scomunica sovietica, il marchio della destra su quella tragedia non tardò a farsi sentire.

Con gli anni i passi nella direzione di una pacificazione si sono compiuti.  Per il poco che vale, mi recai per la prima volta, da segretario dei giovani comunisti e con una delegazione del Pci-Kpi, a deporre un mazzo di fiori sulla Foiba di Basovizza. Correva l’anno 1989.

Più tardi atti e gesti ben più autorevoli sono seguiti. Ciò che mi preme rammentare oggi è il bisogno di non cancellare il passato perché farlo equivale a gettare le basi a che possa ripetersi. Ma non cancellare equivale a conoscerlo e soprattutto capirlo. Senza la paura di misurare la Storia, i suoi torti, le sue ragioni. Per chi è nato lassù tutto ciò non può limitarsi a un augurio. È semplicemente un dovere dell’anima.
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