di Flavia Perina
La sconfitta di Donald Trump è l’evento-choc, ma il declino del sovranismo era già visibile da tempo in Europa, in una catena di eventi meno appariscenti e dibattuti, quasi ovunque determinati dai calcoli sconnessi dei capi o dalle loro fragili personalità. C’è la lady di ghiaccio sconfitta nelle urne da un outsider spuntato all’ultimo momento (Marine Le Pen) e il ragazzo fortunato bruciato da una finta russa in minigonna (Heinz-Christian Strache). Ci sono le scissioni a catena, gli azzardi finiti male (vedi Papeete), e pure scenari criminali come l’inchiesta che ha portato all’arresto dell’intera classe dirigente di Alba Dorata.
Sembrava impossibile. L’ascesa dei leader sovranisti tra il giugno 2016 del referendum britannico e le Europee del 2019 era apparsa come uno tsunami di lunga durata, non solo politico perché collegato a una nuova e inaspettata egemonia culturale. La sfida al politicamente corretto, l’oltraggio alla convenzione, persino la rozzezza maleducata, anche grazie alla legittimazione del Commander-In-Chief americano, si erano imposti come estetica vincente pure nel nostro Continente, tra la sorpresa di chi lo considerava più adulto, più sofisticato, più complesso dell’America profonda.
C’era Nigel Farage, il Toro Combattente (Fighting Bull è il titolo della sua autobiografia) della destra inglese, artefice della fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione, con la sua sconnessa classe dirigente che chiamava gli immigrati Bongo-Bongo e giudicava “comportamento ostile” l’uso dei pantaloni da parte delle donne. C’erano i fenomeni di Vox e loro leader Santiago Abascal, paladino della “reconquista de Espana” dall’occupazione di immigrati, musulmani e feminazi (le femministe), uno che girava per comizi con la Smith&Wesson alla cintura. C’era Jimmie Akesson, ultradestra svedese: nei suoi spot Stoccolma sembrava una città devastata dalla guerra civile, incendi e arresti in massa, gruppi di neri urlanti tra le vetrine spaccate (il 17 per cento degli elettori ci credette, nel 2018 prese 62 deputati).
C’erano i sicuri vincenti: Marine Le Pen, la più “antica” e la più solida, l’austriaco Strache e ovviamente l’italiano Matteo Salvini. Tutti, tranne la Le Pen, sostenitori ma anche vittime del trumpismo, che li portò a credere al fantasmagorico progetto di demolire l’Europa con la benedizione americana e li indusse a spingere l’acceleratore su ogni tipo di provocazione bellicosa contro le minoranze, le donne, gli avversari. Era il Metodo Trump. In America aveva funzionato. Funzionava, apparentemente, anche in Italia, Spagna, Germania, ovunque. Faceva prendere molti voti ma, di fatto, ha finito per travolgere tutti coloro che lo hanno usato come grimaldello per il potere.
Di Salvini si sa, si è giocato il governo per un atto di arroganza. Strache è arrivato fino al vice-Cancellierato per poi essere seppellito da video in cui contrattava finanziamenti con una sedicente miliardaria russa. Vox è rimasta forza regionale e ha mancato l’assalto al cielo di un governo con i popolari spagnoli. Farage è sparito. I tedeschi dell’Afd si sono lacerati nelle scissioni, tre in pochi anni. Gli svedesi di Sd sono confinati all’opposizione. I greci di Alba Dorata sono addirittura in galera. Marine Le Pen, la più solida e la meno trumpiana dei nazionalisti europei, ha perso la sfida della vita e fatica a ricollocare il suo partito. A tutti si pone il problema di ripensarsi oltre il sovranismo della prima ora, di inventarsi qualcosa per rimettersi in gioco non solo come star del consenso ma anche come plausibili forze di governo.