Il sacco del Veneto: così Zaia ha costruito il suo potere sul consumo di suolo

CHIARA MAZZOLENI

 

  • Come ha fatto la Lega a consolidare il suo consenso in Veneto fino a superare il 60 per cento nelle ultime elezioni regionali, con un risultato senza precedenti del presidente Zaia al suo terzo mandato?
  • Se in termini assoluti la Lombardia rimane la regione con la più elevata incidenza di suolo consumato (il 12,08 per cento), il Veneto la segue con l’11,87 per cento, che al netto di montagne e acque è però del 18 per cento.
  • Zaia aveva promesso una legge che avrebbe dovuto consentire al Veneto di fare «da apripista dell’approccio a consumo zero nell’ambito della salvaguardia del territorio». La realtà è assai diversa.

Come la ha fatto la Lega a consolidare il suo consenso in Veneto fino a superare il 60 per cento nelle ultime elezioni regionali, con un risultato senza precedenti del presidente in carica Luca Zaia  al suo terzo mandato? Un sentiero poco praticato, seguendo il quale si possono trovare molti indizi di questo successo, è quello del governo delle trasformazioni del territorio. Un territorio che, con l’affermarsi delle rivendicazioni autonomiste, è stato declinato al plurale e non è più riconoscibile come un bene comune ma è diventato appannaggio di chi ne può derivare un arricchimento privato e di una forza politica di maggioranza che ha consentito a una parte consistente della popolazione di trarne vantaggio.

Dall’ultimo Rapporto si evince che, dal 2012 al 2020 (periodo per il quale si hanno dati confrontabili con quelli attuali), il Veneto ha consumato la maggiore quantità di suolo in valore assoluto e con intensità più elevata negli ultimi anni (2016-2020), avendo concentrato sul proprio territorio un quinto delle trasformazioni registrate a livello nazionale. Anche l’incremento del consumo di suolo rilevato nel 2019-2020 è rimasto particolarmente elevato in questa regione, che si conferma come la parte del territorio nazionale con le peggiori prestazioni per la quantità di suolo consumato in rapporto alla superficie territoriale.

Se in termini assoluti la Lombardia rimane la regione con la più elevata incidenza di suolo consumato (il 12,08 per cento), il Veneto la segue con l’11,87 per cento. Se però si considera la superficie territoriale regionale al netto delle aree classificate di montagna e delle superfici acquee, l’incidenza del consumo di suolo risulta superiore al 18 per cento.

Ma c’è di peggio.

Se consideriamo le implicazioni del processo di impermeabilizzazione del suolo sul sistema ambientale, il Veneto ha la densità di consumo di suolo più elevata (il rapporto tra suolo consumato e superficie territoriale è di 3,72 m²/ha, rispetto a una media nazionale di 1,72), presenta la maggiore incidenza (il 12,4 per cento) del suolo consumato in aree vincolate (contermini a coste, laghi e fiumi, soggette a tutela paesaggistica) – con una dinamica che non sembra diminuire, considerando che nella regione si è registrato l‘incremento più elevato di suolo consumato in questi ambiti anche nell’ultimo anno – e la maggiore diffusione del degrado dovuto alla perdita di qualità degli habitat, imputabile in buona parte ai più alti indici di frammentazione del territorio e del paesaggio qui raggiunti.

Le trasformazioni da suolo naturale o agricolo ad artificiale, registrate nello stesso periodo, hanno avuto un forte impatto sulla disponibilità di fondamentali beni e servizi forniti dagli ecosistemi naturali. Anche in questo la regione si è particolarmente distinta rispetto alle altre regioni. Ha contribuito maggiormente ad annullare la capacità di assorbimento e immagazzinamento nel suolo del carbonio organico – processo efficace per la riduzione della produzione di CO2 dell’atmosfera e per la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici – stimata in una perdita di oltre due milioni di tonnellate a livello nazionale. Ed è noto da tempo, dall’allarme lanciato dai climatologi, che c’è una chiara correlazione tra l’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera e la frequenza e l’intensità di alluvioni, ondate di calore e periodi di siccità.

Il Veneto, inoltre, è tra le quattro regioni con la maggiore incidenza (il 9, per cento) del suolo artificializzato in aree a pericolosità idraulica e tra il 2019 e il 2020 ha fatto registrare il maggiore incremento del consumo di suolo in aree a pericolosità elevata, cui è associato il valore più alto in termini di impatto economico dell’urbanizzazione, quindi di costi che gravano sulla collettività.

Esaminando il rapporto più dettagliato fornito dall’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale (Arpav), risulta evidente come il consumo di suolo, sia pregresso sia recente, ha inciso maggiormente sui suoli più produttivi e ha fortemente ridotto la regolazione dei flussi idrici e la capacità di immagazzinamento dell’acqua (al 2019 la perdita di acqua è stata stimata di 376 milioni di metri cubi). Come si è giunti a questo degrado?

La nuova legge regionale sul governo del territorio, approvata nel 2004, ha individuato tra le sue finalità l’utilizzo di nuove risorse territoriali solo quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente. Questa finalità è rimasta un’enunciazione di principio, nonostante il fenomeno della dismissione, anche per la forte incidenza degli edifici a destinazione produttiva in disuso, sia diventato in Veneto un’emergenza di politica economica di primaria importanza. Parte significativa di questi edifici è il lascito di una politica fiscale (legge 383 del 2001, cosiddetta “Tremonti bis”) che ha premiato gli investimenti che si sono spostati dalla produzione all’immobiliare, senza per altro un’effettiva domanda, come segnala il Centro di ricerche sulle trasformazioni territoriali del Nordest.

I piani urbanistici comunali hanno previsto ulteriori espansioni delle aree edificabili senza tenere in alcuna considerazione il patrimonio edilizio dismesso, la cui rilevazione non era compresa nei quadri conoscitivi dei piani e tantomeno richiesta nel loro aggiornamento. Non solo, la maggior parte dei comuni ha aumentato del 10 per cento la quantità di suolo agricolo trasformabile, risultante dall’applicazione dei parametri stabiliti, con un’interpretazione estensiva dei criteri per la determinazione del limite massimo di consumo di suolo.

Dall’entrata in vigore della legge urbanistica regionale, il contenuto dei piani urbanistici è stato progressivamente svuotato attraverso una pletora di dispositivi derogatori, a partire dal Piano Casa, approvato inizialmente nel 2009.

Concepito come provvedimento straordinario, per affrontare la congiuntura economica, sempre utilizzando come volano dello sviluppo il settore edilizio, è stato più volte reiterato diventando così strutturale. E ha riguardato la maggior parte dell’attività edificatoria realizzata in deroga agli strumenti urbanistici (dalle residenze, agli edifici commerciali e per uffici), in larga parte interessando aree agricole. Ciò concorre a spiegare perché il Veneto sia la regione nella quale le superfici artificiali in ambito agricolo siano aumentate in modo rilevante dal 2012 al 2020, facendo registrare il valore massimo di perdita di suoli produttivi a livello nazionale (1.936 ettari), come si evince dall’ultimo Rapporto sul consumo di suolo.

Ma si sa quanto l’investimento immobiliare e soprattutto la rendita abbia sempre pagato in termini elettorali. Lo stato del suolo che deriva dal suo indiscriminato sfruttamento per estrarre rendite aiuta, quindi, a spiegare l’adattamento reciproco delle parti tra pratiche sociali e prassi amministrative e, al tempo stesso, l’offuscamento sulle responsabilità collettive.

Il depotenziamento sistematico della pianificazione territoriale è avvenuto anche privando i piani urbanistici comunali di qualsiasi capacità regolativa, perché vincolante non è risultata nemmeno la determinazione di limiti di consumo di suolo, almeno fino al recente provvedimento della Giunta regionale (n. 668 del 2018), che ha definito la quantità massima di consumo di suolo ammesso nel territorio regionale e la sua ripartizione per ambiti comunali o sovracomunali omogenei. Tali limiti, infatti, sono stati definiti negli Atti di indirizzo (delibera n. 3178 del 2004), da parametri e indici basati sul rapporto tra la superficie del territorio comunale e la superficie agricola utilizzata, anziché assumere quella urbanizzata, derivabile dalle rilevazioni ufficiali degli usi del suolo. Ciò ha facilmente consentito alle amministrazioni locali di adattare, con vari espedienti e il supporto di tecnici compiacenti, il calcolo della superficie agricola in modo tale da poter ottenere una soglia maggiore di suolo consumabile.

Il caso più eclatante è quello del comune di Verona, dove, stando al contenuto dell’esposto presentato da alcuni consiglieri di minoranza dell’amministrazione comunale alla Procura e segnalato a provincia e regione, nella redazione del piano regolatore, si è utilizzata una procedura del tutto arbitraria, a partire dal dato relativo alla superficie del comune. Questo artificio ha consentito che grandi parcheggi di centri commerciali, piste dell’aeroporto, impianti sportivi etc., fossero automaticamente classificati come superficie agricola utilizzata. Con il risultato del raddoppio del suolo potenzialmente trasformabile in zone con destinazioni diverse da quella agricola, rispetto a quanto si sarebbe ottenuto dall’applicazione corretta della metodologia di calcolo. Non sorprende, quindi, che questo sia il comune capoluogo del Veneto che, insieme alla sua provincia, ha fatto registrare un consumo di suolo tra i più elevati a livello regionale, e non solo, negli ultimi anni.

In diversi altri casi, è stata considerata superficie agricola utilizzata quella di pertinenza dei lotti edificati posti ai margini delle aree urbanizzate. In comuni con elevata dispersione insediativa ciò ha comportato uno scostamento di questo parametro del 20 o 30 per cento.

E le funzioni di controllo, attribuite ai livelli di governo superiori, sono risultate molto scadenti o inesistenti, quando non corresponsabili.

SISTEMA DEROGATORIO

Nella deliberazione regionale degli atti di indirizzo per l’applicazione della legge urbanistica sono state introdotte deroghe o eccezioni significative relative a tipologie di interventi e di trasformazioni del territorio che sono state escluse dal computo (quindi non concorrono a determinare consumo di suolo).

Tra queste le aree di espansione con diverse destinazioni d’uso previste dai piani regolatori comunali, e per le quali non era ancora stato stipulato alcun accordo tra privati e amministrazione per la loro trasformazione, le aree vincolate a standard non attuati, le opere pubbliche e i nuovi insediamenti produttivi di interesse sovracomunale.

Quella delle aree di espansione previste dai vecchi piani regolatori continua a rimanere una questione dirimente rispetto al consumo di suolo.

Molte di queste potenziali trasformazioni del territorio sono esito della fase “transitoria” concessa dopo l’emanazione della nuova legge regionale sul governo del territorio e più volte prorogata e ridefinita con un sistema di deroghe contrastante con l’obiettivo di porre un limite alla presentazione di modifiche ai piani. L’annuncio delle nuove disposizioni e l’apertura della fase transitoria hanno indotto i comuni, quasi con un atteggiamento bulimico, a presentare ripetute varianti allo strumento vigente, molte delle quali hanno aggiunto nuove aree di espansione, di varie destinazioni d’uso, e nuove infrastrutture viarie, in taluni casi con rilevanti impatti territoriali.

Ammettendo il sistema delle proroghe, la nuova legge sul governo del territorio ha di fatto permesso, in quasi un quadriennio, modifiche delle previsioni pianificatorie tali da influire pesantemente sulle trasformazioni territoriali e sul consumo di suolo. Gli atti di indirizzo e successive circolari regionali esplicative hanno poi consentito che le potenziali trasformazioni del territorio sottese a queste previsioni fossero inserite negli ambiti di urbanizzazione consolidata, quindi considerate come trasformazioni di fatto.

L’esempio più significativo è quello del “Parco tematico”, nel comune di Casale sul Sile, in provincia di Treviso, di recente oggetto di un’interpellanza al Senato. Si tratta della trasformazione di una vasta area ancora agricola di 500 mila metri quadrati, con fragilità idraulica, limitrofa al fiume e interposta tra zone con destinazione produttiva.

Dal 1989, con una serie di varianti di destinazione d’uso richieste dai promotori, da un’originaria proposta di trasformazione a parco di divertimento, l’area è oggi interessata dal progetto di un’imponente polo logistico, a seguito della realizzazione di un nuovo tratto autostradale e della pressione di Amazon. Ebbene, questa potenziale trasformazione non concorre al consumo di suolo, i cui limiti, per questo comune, sono stati fissati a soli 87 mila metri quadrati dal nuovo provvedimento regionale. È evidente come le previsioni degli strumenti urbanistici e, più di recente, i “motivi imperativi di interesse generale” connessi al contenimento del consumo di suolo e alla salvaguardia ambientale sono stati asserviti alle strategie opportunistiche di operatori immobiliari.

Negli ultimi anni la logistica è diventata un motore rilevante delle trasformazioni del territorio ed è conseguentemente aumentata la criticità delle aree nell’intorno del sistema infrastrutturale, più frammentate e sempre più oggetto di interventi di artificializzazione a causa della loro maggiore accessibilità. La logistica è in forte crescita, con 700 ettari di suolo interessato dalla realizzazione di nuovi poli negli ultimi sette anni a livello nazionale e manifesta una tendenza all’aumento. Il Veneto ha contribuito a questo nuovo consumo, con i livelli più alti a scala nazionale raggiunti dal 2017 al 2019, ed è secondo dopo l’Emilia Romagna per l’incidenza del suolo consumato per attività logistiche dal 2012 al 2019.

IL MERCATO DELLE REGOLE

La cultura politica dominante in questa regione ha consentito che non solo gli interventi previsti dai piani urbanistici e non ancora diventati operativi, ma anche tutte le grandi operazioni di trasformazione, quando definite “progetti strategici” di interesse regionale, non rientrassero nel calcolo del suolo potenzialmente consumabile. Nonostante siano in realtà causa evidente di consumo di suolo. Si tratta di grandi opere infrastrutturali (come la nuova Pedemontana veneta), di interventi previsti dagli strumenti urbanistici ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, di opere pubbliche o di interesse pubblico, di ampie zone a sviluppo commerciale, direzionale e sportivo (come quelle interessate da progetti di nuovi stadi con annesse aree con funzioni terziarie), di complessi turistico-ricettivi, in particolare in ambito costiero e, più in generale, degli interventi attuativi delle previsioni contenute nel Piano territoriale regionale (compresi i Piani di Area).

Inoltre, sempre con disposizioni derogatorie, il procedimento semplificato per la trasformazione e l’ampliamento di attività produttive (Suap), istituito per “snellire” le procedure, è stato surrettiziamente trasformato in prassi ordinaria di elusione sia degli strumenti urbanistici sia del consumo di suolo.

Qualcuno potrebbe supporre che, di fronte alla constatazione dei livelli di degrado territoriale e ambientale restituiti dalle rilevazioni sulla copertura del suolo, la regione abbia cercato di rimediare con il provvedimento approvato nel 2017 (legge n. 14), contenente disposizioni per il contenimento del consumo di suolo.

“Una legge di quelle che qualificano un’intera legislatura”, che avrebbe dovuto consentire al Veneto di fare “da apripista dell’approccio a consumo zero nell’ambito della salvaguardia del territorio”, come ha dichiarato alla stampa il presidente della regione Luca Zaia, che l’ha inserita tra le prime da presentare subito dopo le elezioni. La realtà è assai diversa.

Basta leggere il contenuto delle “Disposizioni finali” (art 12). Sono sempre consentiti, dall’entrata in vigore della legge e successivamente, in deroga ai limiti di suolo consumabile stabiliti per ciascun comune dalla Giunta regionale: gli interventi previsti dallo strumento urbanistico generale ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata (quindi anche sulle superfici naturali all’interno delle aree urbane, importanti per azioni di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico), i lavori e le opere pubbliche o di interesse pubblico (tra cui le infrastrutture stradali), gli interventi attinenti alle attività produttive con procedura Suap e quelli connessi all’attività dell’imprenditore agricolo, le attività di cava e gli interventi attuativi delle previsioni contenute nei “progetti strategici”.

Rientrano, inoltre, nel regime derogatorio i piani urbanistici attuativi con procedimento avviato, considerando come tale la sola presentazione al comune della proposta di intervento.

A che cosa serve, se non per una strategia comunicativa per proclami, fissare una quantità massima di consumo di suolo ammesso nel territorio regionale in vista dell’obiettivo di consumo zero al 2050, se poi decisori politici consentono di consumarne una quantità molto superiore, che per di più è complesso monitorare?

A questo proposito l’Arpav afferma che è fondamentale riuscire a quantificare quanto consumo ricade o meno all’interno dei casi di deroga per mettere in relazione i risultati del monitoraggio del consumo di suolo sull’intero territorio regionale con i dati che servono a valutare il raggiungimento degli obiettivi posti dalla legge regionale sul suo contenimento. Al tempo stesso però riconosce quanto sia complesso – per l’insieme degli interventi eseguiti in regime di deroga – determinare quante delle trasformazioni censite attraverso il monitoraggio rientrino nel massimale di suolo consumabile definito dalla regione oppure siano compresi nelle deroghe.

I dati emersi da un’analisi campione degli interventi realizzati in ambiti di urbanizzazione consolidata relativi a 70 comuni (il 14 per cento della superficie regionale) distribuiti sull’intero territorio regionale sono più che eloquenti. Tra il 2018 e il 2019, in questi comuni più della metà (il 56,9 per cento) del nuovo consumo di suolo è stato registrato in questi ambiti e non è quindi conteggiabile, secondo i criteri della normativa regionale, all’interno della quantità massima di consumo ammessa. Inoltre, si afferma sia molto probabile che una parte del consumo esterno a questi ambiti possa anch’essa rientrare nei casi di deroga. Tale porzione è solo in parte identificabile laddove si riferisca a interventi che riguardano la realizzazione di infrastrutture o di edifici a uso produttivo-commerciale generalmente autorizzati attraverso lo Sportello unico delle attività produttive.

Dovremo aspettare il prossimo Rapporto ufficiale per accorgerci di una situazione del tutto evidente?

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