Il rebus Pd nelle manovre del dopo voto.

Via via che ci si avvicina al giorno del voto, diventa più chiaro che esiste un nesso fra quello che accadrà all’interno del Pd e le manovre per dare un governo al paese o anche solo una prospettiva alla legislatura. Renzi garantisce che in caso di sconfitta non farà “un passo indietro”. E non c’è da stupirsi: brucia ancora la frase avventata prima del referendum costituzionale, quella promessa di ritirarsi che ancora gli viene rimproverata fra ironie di vario genere.

La lezione deve essere servita, tant’è che ora il segretario del Pd si è costruito un solido fortilizio di parlamentari amici e può resistere anche a una nuova delusione elettorale. S’intende: delusione e non disfatta. Se il Pd scendesse sotto il 22 per cento o addirittura il 20 si parlerebbe di disfatta e la resa dei conti sarebbe inevitabile. Tra il 22 e il 25 Renzi, pur deluso, avrebbe la possibilità di arroccarsi senza fare passi indietro. Sopra il 25, per come si sono messe le cose, suonerebbe l’inno della vittoria. Si capisce allora che il dopo voto è una pagina bianca e chi vuole anticipare i tempi sta sfidando la sorte, oltre che il Quirinale. Le ipotesi che si sentono in giro sono tutte alquanto fantasiose perché mancano gli ingredienti essenziali in un’elezione: il risultato, i seggi e dunque la conoscenza dei nuovi rapporti di forza. Questo non significa che nel Pd e dintorni le manovre non siano cominciate. C’è Veltroni, ad esempio, che si esprime attraverso un linguaggio comune con Gentiloni. E non fa niente per nascondere più di un distinguo rispetto al segretario.

Per esempio nel sottolineare che con un Parlamento paralizzato è meglio tornare a votare piuttosto che imbarcarsi in un ipotetico governo a mezzadria con Berlusconi. Aggiungendo però che prima si deve correggere la legge elettorale. In sostanza si vorrebbe preparare il terreno a una proroga dell’esecutivo Gentiloni, al riparo del quale le forze politiche potrebbero cercare in Parlamento un’intesa sulla riforma dello sfortunato Rosatellum. Logico che il successo di un simile piano è appeso a fili molto esili: il primo è proprio la forza del Pd dopo il 4 marzo. Una disfatta renderebbe irrealizzabile lo scenario appena descritto e renderebbe ancora più astruso il rebus. Perché di rebus si tratta sempre quando si evoca la riforma elettorale. Con una contraddizione palese: la doppia idea di tornare al voto in tempi brevi e di andarci con una nuova legge – votata in pochi mesi da partiti disciplinati – sembra avere poche speranze di stare in piedi. Ne deriva che al momento nessuno nel Pd è in grado di delineare una prospettiva. Molti pensano del resto a un obiettivo più immediato e concreto. Da un lato, porsi come interlocutori del capo dello Stato; dall’altro, scegliere la posizione migliore per giocarsi la partita interna. Di qui quel sottile lavorio che tende a isolare il segretario fra mille distinguo. Ben sapendo che Renzi avrà dalla sua la gran parte dei gruppi parlamentari. E quindi – come lui stesso afferma – le provviste dovrebbero essere sufficienti per sostenere un lungo assedio. Sarà in altre parole un isolamento relativo. Tuttavia mai sottovalutare i notabili, specie quando hanno dovuto masticare amaro per troppo tempo. Se la via della legislatura passerà in modo quasi esclusivo dal Quirinale, cioè dalle mani di Mattarella, Renzi non avrà grandi carte da giocare (sempre nell’ipotesi di un risultato scarso del Pd). Se invece il segretario riuscirà a stabilire un ponte con Berlusconi, la cornice potrebbe cambiare. Ma anche qui bisogna prima contare i voti. Su entrambi i versanti.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/

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