Il razzismo dei filosofi occidentali.

Il termine «filosofia» è ormai entrato in pianta stabile nel nostro vocabolario, europeo e occidentale. Letteralmente, significa desiderio ( philo- ) della sapienza ( sophia ). La parola, non ci sono dubbi, è greca: lo è anche questo desiderio di conoscere e di sapere? Così pensava Martin Heidegger, quando osservò che l’espressione «filosofia europea e occidentale» era una tautologia inutilmente ridondante, perché la filosofia non può che essere greca e dunque europea o occidentale. Era in buona compagnia, visto che idee simili erano state sostenute anche da Immanuel Kant. Uno dei padri del cosmopolitismo, e però pericolosamente vicino a tesi razziste quando affermò che mai un indiano, un cinese o un africano avrebbero potuto elaborare un pensiero filosofico, capace di condurci al di là del mondo delle semplici apparenze: inutile preoccuparsi di educarli troppo, dunque. Jacques Derrida, bontà sua, andò fino in Cina per spiegarlo ai cinesi, mentre G.E. Moore lo fece capire, tra le risate del pubblico, a un indiano che aveva appena parlato all’Aristotelian Society di Londra: «Non ho niente da commentare. Ma sono sicuro che tutto quello che ha detto è sbagliato». Sono sempre pronti a litigare su tutto, i filosofi, e non si potrebbe pensare a due figure più lontane di Moore e Heidegger: su questo punto almeno, però, concordavano. E non soltanto loro. Peccato, viene da aggiungere.

Anche per questo, l’anno scorso gli studenti di uno dei più prestigiosi atenei di Londra, la School of Oriental and African Studies (Soas), hanno protestato, stufi di leggere soltanto i vari Platone e Cartesio. Volevano «decolonizzare» l’università dal dominio dei filosofi «bianchi», è stato scritto. È la descrizione grottesca di una protesta eccessiva nei modi, che non mancava però di qualche ragione: davvero solo la civiltà occidentale è animata dall’interesse per la conoscenza? O, ancora peggio, davvero saremmo noi gli unici capaci di affrontare la sfida con successo? Difficile sostenerlo. Alcuni dei momenti più esaltanti nella storia della filosofia occidentale si ebbero quando questo piccolo mondo chiuso fu costretto a confrontarsi con altre tradizioni di pensiero. Ad esempio nel XIII secolo, quando a Parigi arrivarono le idee dei pensatori arabi che avevano cercato di tenere insieme Aristotele e il Corano: la scossa per i filosofi cristiani fu fortissima e i risultati dei dibattiti che si svilupparono notevoli. Bene ha fatto Dante a mettere anche Averroè e Avicenna nella «filosofica famiglia», insieme ad Aristotele e Platone.

«I filosofi cristiani»: si tende a dimenticarlo con troppa disinvoltura, ma non era la prima volta che sistemi di credenze e idee, apparentemente irrazionali, arrivavano dall’Oriente a sconvolgere il bel mondo ordinato che si chiama oggi Europa. Era successo anche ai tempi dell’Impero romano con un gruppetto di persone che andavano in giro a predicare gli inverosimili miracoli di un tal Gesù. Paolo di Tarso ci provò persino ad Atene, la città dei filosofi, dove fu sommerso dalle risate («Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo canzonavano, altri dicevano: “Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta”», si legge negli Atti degli Apostoli ). Ma i cristiani avevano ragione: portavano idee nuove con cui i filosofi prima o poi dovettero confrontarsi; e da quel confronto la filosofia ha ripreso slancio e vigore. I filosofi, quelli veri, lo sanno bene: le sfide, tanto più sono impegnative, tanto più meritano di essere accettate.

Non si tratta soltanto della capacità della filosofia di contaminare (perché neppure cristianesimo e islam sono rimasti indenni da questo confronto) e di lasciarsi contaminare. Lo hanno già notato Platone e Voltaire, Leibniz e Karl Jaspers, Amartya Sen e François Jullien, e lo ripetono oggi con dovizia di argomenti numerosi studi (l’ultimo è Taking Back Philosophy , di B.W. Van Norden, in uscita a dicembre; da non perdere sono le lezioni di Peter Adamson, ora disponibili in podcast su historyofphilosophy.net): anche laddove non arriva il potere di irradiazione della filosofia europea, troviamo problemi e strategie argomentative che possono essere messi in parallelo con quelli dei filosofi tradizionalmente intesi, e che sarebbe un vero peccato trascurare. Come invece troppo spesso accade. Eppure il progetto di Confucio — costruire un sistema morale che non si fondi su principi assoluti o divini — non è così distante da quello di Aristotele: sono progetti che proprio oggi andrebbero considerati con attenzione, mentre il conflitto religioso torna a infuriare. Se non lo facciamo, molto spesso è per ignoranza, così come è per ignoranza che, ad esempio, non si considerano mai le tesi delle scuole indiane quando si discute di scetticismo e conoscenza.

L’albero della filosofia non è quello di Adamo ed Eva, con un tronco da cui partono tanti rami; meglio pensare ad una pianta diffusa in India, il baniano, le cui radici aeree partono dai rami e si trasformano in tronchi quando raggiungono il terreno, aumentando la sua superficie: un sistema senza centro, capace di proliferare continuamente. Sono tante le vie che si possono percorrere per interrogare la realtà, e non è detto che portino tutte ad Atene.

Sembrano questioni accademiche di poco conto (a chi importa, in fondo, della filosofia?); sono problemi d’importanza vitale. Parlare della filosofia significa parlare del logos : la filosofia è quel sapere che mette al centro di tutto la fiducia nella ragione e nella razionalità. Negare che altri mondi possano occuparsi legittimamente della filosofia è un modo raffinato per riproporre lo stereotipo ottocentesco degli Orientali mistici, spirituali o sentimentali (dell’Africa non mette conto neppure di parlare: e invece la lettura de Il rinoceronte d’oro di François-Xavier Fauvelle, appena pubblicato da Einaudi, rivela un mondo inaspettatamente vivace), a cui si contrappone la civiltà occidentale, l’unica compiutamente matura, e dunque oggettivamente superiore. Ripetere questi stereotipi oggi non è forse un modo (poco efficace) per sfuggire alle sfide della globalizzazione, persi nel rimpianto di un passato in gran parte fittizio? Quella di «civiltà» è una nozione scivolosa: parliamo di noi al singolare, ma è evidente che la nostra società «occidentale» è attraversata da tante diverse visioni del mondo, religiose o secolari, spesso in conflitto tra di loro. E lo stesso discorso vale anche altrove: lo ha spiegato tante volte Amartya Sen, e basta leggere i romanzi di Orhan Pamuk o Amitav Ghosh per rendersene conto. La Cina non è solo Confucio e in India, per noi sempre e comunque la culla della spiritualità, si è sviluppata anche una letteratura atea e materialista. Il vero pluralismo non si dà tra le culture, ma all’interno di ogni cultura.

Ad Atene Socrate lasciava sempre stupiti i suoi concittadini. Lo chiamavano atopos , riferisce Platone, un termine di solito tradotto con «strano». In effetti, poneva domande strane: «Esiste la giustizia? Cos’è la bellezza? Perché gli uomini dovrebbero essere considerati superiori alle donne?». È quello che hanno sempre fatto i filosofi, quale che sia il posto in cui in cui sono vissuti: aiutare a pensare ai problemi del proprio tempo, confidando nella capacità delle persone di ragionare con la propria testa. In realtà, a essere precisi, «Atopos» indica chi è «senza» ( a- ) «luogo» ( topos ): vale a dire chi, proprio perché libero dai condizionamenti della sua terra (e del suo tempo), può affrontare i problemi senza pregiudizi. «Ovunque e in nessun luogo», scriveva Maurice Merleau-Ponty: è una bella descrizione della filosofia, una disciplina che non esprime la natura di un popolo, ma la curiosità, e il desiderio di conoscere, di alcuni uomini. La battaglia per la ragione non è una battaglia tra Occidente e Oriente, tra «noi» e «loro». È tra chi ha fiducia nell’intelligenza umana e chi invece ne dubita (magari a ragione: anche questo è un problema). Sono due schieramenti diffusi a tutte le latitudini.

 

Domenica 12 Novembre 2017 La Lettura.

www.corriere.it/la-lettura/