Il premier e lo spettro del conflitto sociale da evitare a ogni costo

di Francesco Bei
ROMA – Se ci fosse il partito di Draghi, questo sarebbe il suo congresso fondativo e questi 1200 industriali in grisaglia, che si spellano le mani a ogni suo passaggio, i suoi delegati. Il partito del Pil. Ma l’interessato sembra quasi imbarazzato di tanto incondizionato entusiasmo, come se soffrisse a restare schiacciato soltanto su una parte. E non è un caso allora se, poche ore dopo il tripudio all’assemblea di Confindustria, palazzo Chigi fa sapere che lunedì prossimo il presidente del Consiglio riceverà ufficialmente i segretari di Cgil, Cisl e Uil. Un incontro allargato e pubblico, perché di faccia a faccia riservati nelle ultime settimane Draghi ne avuti con tutti i leader delle tre confederazioni. L’intento è chiaro: mantenere la pace sociale nel Paese in un momento delicato, con i prezzi delle materie prime e dell’energia che schizzano verso l’alto e interi settori industriali che rischiano di entrare in forte sofferenza.
Raccontano che Draghi sia rimasto colpito dal corteo che pochi giorni fa ha sfilato per le strade di Firenze, con migliaia di lavoratori dietro gli striscioni dei licenziati della Gkn, di Alitalia, di Whirpool. Così come abbia notato con soddisfazione le parole di Maurizio Landini su una possibile ricostruzione dell’unità sindacale. E chissà se è vero quello che confida un ministro che parla di frequente con Draghi e che ieri ha partecipato all’assemblea degli imprenditori. Ovvero che quell’appello del presidente di Confindustria Bonomi a un nuovo “patto” sociale tra imprese e sindacati sia stato preventivamente concordato e suggerito dallo stesso premier. Il quale, quando è toccato il suo turno sul podio, lo ha rilanciato e fatto proprio.
Il capo del governo sa bene quanto sia fragile la ripresa ed esposta a rischi geopolitici non controllabili. Per questo serve puntellare il più possibile il fronte interno. «Occorre essere uniti – ha spiegato ieri Draghi – per non aggiungere incertezza interna a quella esterna». E il «pilastro» di questa unità sono «le buone relazioni industriali».
«Anche negli anni Settanta – riflette il ministro Andrea Orlando in una pausa dei lavori di Confindustria – la conflittualità era altissima. Ma, nonostante tutto, sindacati e imprese firmarono un contratto importante come quello dei metalmeccanici del 1973». Draghi ha ricordi in parte diversi di quella stagione. La vide da lontano, da giovane ricercatore al Mit di Boston con il futuro premio Nobel Modigliani. E conserva l’immagine di un paese che iniziò a sprofondare dopo la crescita impetuosa degli anni Sessanta. Parlando a braccio, dopo aver lasciato sul podio i fogli con gli appunti, ieri il premier si è lasciato andare a un monito, rivolto sia a sindacati che a Confindustria: «Come mai si sono interrotti quei tassi di crescita, come mai nel 1970-71 il giocattolo si è rotto? Ha certamente pesato il quadro internazionale, con fattori come la grande inflazione, le due guerre, la crisi energetica. Però anche in quel quadro così difficile alcuni paesi hanno affrontato gli anni ‘70 con successo». La differenza fra l’Italia e quei paesi che non hanno dovuto subire un decennio di terrorismo, alta inflazione, conflitto sociale fortissimo e bassa crescita, l’ha fatta proprio la qualità dei rapporti interni fra imprese e sindacati. «Da noi, sul finire degli anni ‘60, si è assistito alla totale distruzione delle relazioni industriali ».
Per mettere al sicuro il Paese il modello a cui si guarda nel Pd è quello di Ciampi del luglio 1993, il patto sulla politica dei redditi, richiamato esplicitamente da Enrico Letta già in aprile. «Draghi e Bonomi gli dovrebbero pagare il copyright », scherza Orlando. Un patto tra produttori all’insegna della pace sociale, sotto l’ombrello del Recovery Plan. «Nel momento in cui il quadro complessivo cambia, le relazioni industriali vanno particolarmente sotto pressione e invece bisogna essere capaci di tenerle », avvisa il premier. Certo, se le intenzioni sono evidenti, l’esito è ancora tutto da scrivere. Lo stesso Draghi, con il proverbiale pragmatismo, all’inizio era contrario a dare titoli enfatici a questa operazione. A convincerlo è stato il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, ricevuto in un faccia a faccia a palazzo Chigi tre giorni fa. Sbarra ha spiegato al premier che, senza un suo impegno personale e diretto come garante, i sindacati e le imprese da soli non ce l’avrebbero fatta a superare le reciproche diffidenze. «Presidente, ci deve mettere lei la faccia », ha insistito Sbarra. Il leader cislino ha richiamato soprattutto il punto centrale dell’attuazione del Pnrr, la cosiddetta messa a terra delle riforme. Che necessitano di una pubblica amministrazione collaborativa e motivata da qui al 2026, quando terminerà il Piano. «Anche il governo ha bisogno di noi per farcela».
Certo, non è detto che l’impegno di Draghi sia sufficiente. E le prime reazioni a caldo di Cgil e Uil registrano ancora una certa freddezza. Pierpaolo Bombardieri ha preferito disertare l’invito di Bombassei e se n’è andato a Potenza a un evento della Uil. Anche Maurizio Landini, prima di lasciare il palazzetto dell’Eur, si mostra ancora diffidente. «A noi va bene il patto, ma bisogna intendersi su quello che ci scriviamo. Vorrei prima capire quali contenuti sui contratti, sulle pensioni, sulla riforma del fisco, sulla politica industriale». Nel Pd tuttavia si registra un certo ottimismo dopo giorni di tensione sul Green Pass con la Cgil. «Con Draghi – scherza un dirigente dem ricordando Conte – abbiamo trovato un nuovo punto di riferimento fortissimo dei progressisti».
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