Il potere dell’incertezza

Il filosofo Edgar Morin, 99 anni, spiega perché la pandemia è un’occasione per cambiare. E liberarsi della tecno-economia
Anais Ginori
PARIGI
Siamo entrati nell’epoca delle grandi incertezze ». Filosofo, sociologo, antropologo, Edgar Morin ha compiuto a luglio 99 anni, senza mai esaurire la sua curiosità intellettuale, ravvivata dalla crisi del Covid che fa sembrare i governanti come navigatori senza più coordinate. La bussola di Morin indica una direzione precisa. Cambiamo strada è l’invito dell’intellettuale francese nel suo saggio appena pubblicato da Raffaello Cortina Editore. Il grande pensatore propone “quindici lezioni del coronavirus” all’insegna della solidarietà, dell’intelligenza, dell’avvento dell’“ecopolitica” e la fine della “tecno-economia”. «Non riuscendo a dare un senso alla pandemia, impariamo da essa per il futuro» scrive Morin. I suoi saggi spaziano dall’elaborazione del lutto ai nuovi miti dello spettacolo, dall’ecologia alla riforma del welfare. In un’epoca di semplificazioni, il filosofo teorizza da tempo il “pensiero complesso”, l’unione degli opposti e dei saperi, come ha spiegato nei sei volumi della Méthode , l’opera enciclopedica scritta tra il 1967 e il 2006, e per il quale si è guadagnato il soprannome di “Diderot del Novecento”.
Comincia il libro con un aneddoto personale: sua madre si era ammalata dell’influenza spagnola, e quell’esperienza ha segnato il suo destino.
«Lo psichiatra Boris Cyrulnik ha dimostrato come un grave trauma possa donarci, se riusciamo a sopravvivere, una capacità di resistenza che definisce, con termine mutuato dalla fisica, “resilienza”. Io ho resistito sin dalla nascita. La ragazza che sarebbe diventata mia madre aveva avuto dei problemi cardiaci a causa dell’influenza spagnola. Quando si sposò le dissero che non poteva avere figli perché il parto le sarebbe stato fatale. Rimase incinta una prima volta e abortì. La seconda volta l’abortista clandestina le diede dei prodotti che non funzionarono. Il feto resistette. Così sono nato io».
La resilienza vale per le nostre società?
«Anche se non si rischia una morte immediata, una grande crisi sociale, politica o economica costituisce una prova per la società che può uscirne indebolita o rafforzata. Potremmo andare verso una disgregazione oppure sperimentare una forma di resilienza e uscirne rigenerati, se solo cambiamo strada».
Non usa mai il termine “rivoluzione”.
«La rivoluzione sovietica e poi quella maoista hanno prodotto un’oppressione che va in senso opposto rispetto alla missione di emancipazione. Il loro fallimento ha restaurato ciò che avevano voluto liquidare, ossia capitalismo e religione. Nel ’68 alcuni credevano in una prova generale di rivoluzione, altri che l’economia fosse colpita a morte dalla rivolta. Io interpretai il fenomeno solo come un cedimento momentaneo della nostra civiltà».
Questa volta non si tratta più solo di un cedimento? La “tecno-economia”, che lei tanto critica, è sempre presente.
«È vero: oggi la globalizzazione “tecno-economica” è più egemonica che mai. Con la sua sete insaziabile di profitto, è stato il motore del degrado della biosfera e dell’antroposfera, ha provocato chiusure nazionaliste, etniche e religiose. Cambiare strada può sembrare impossibile. Ma tutte le nuove vie che la storia umana ha conosciuto erano impreviste, figlie di deviazioni che hanno potuto mettere radici, divenire forze storiche».
Il successo dei verdi in Francia è un segnale che qualcosa si muove?
«I successi alle municipali dei verdi fanno sperare in progressi a livello locale. Ma per passare al livello nazionale ce ne corre. L’ecologia deve essere integrata in un vero new deal politico-economico-ecologico — sociale-culturale allo scopo di far regredire l’ipercapitalismo e diminuire le diseguaglianze.
L’ecopolitica è ormai di primaria importanza. Siamo solo all’inizio».
Le epidemie esistono dalla notte dei tempi. Cosa è davvero inedito?
«L’impotenza della scienza davanti a un virus disorientante, il carattere multidimensionale della crisi che tocca la vita di ogni individuo, di tutte le nazioni e dell’intero pianeta. C’è la sensazione che il mondo di domani non sarà più come quello che abbiamo conosciuto».
Gli scienziati si accapigliano su posizioni diverse, come i politici.
«La scienza non ha un repertorio di verità assolute. Solo la teologia si ritiene infallibile. Le teorie scientifiche sono mutevoli e i principi apparentemente più saldi del XIX secolo, come il determinismo, cedono il posto ad altre teorie. La scienza come la vita politica vive di conflitti e dibattiti. Le controversie, lungi dal costituire un’anomalia, sono necessarie ai progressi della scienza. Il progresso scientifico nasce da competizione e cooperazione. Il rischio tuttavia è che la competizione diventi concorrenza, come per la ricerca della terapia o del vaccino, a discapito della cooperazione, che consentirebbe di accelerare l’eliminazione del virus».
Dice bene Macron quando parla della necessità di “reinventarsi”?
«Dobbiamo ripensarci per reinventarci. Cambiare vita e cambiare strada. Tante trasformazioni sembrano necessarie contemporaneamente: occorrono riforme economiche, sociali, personali, etiche. Ovunque nel mondo, grazie a questa crisi globale, sono comparse miriadi di sorgenti, miriadi di rivoli, che unendosi potrebbero formare ruscelli e confluire in corsi d’acqua, da cui potrebbe nascere un grande fiume».
Cambiare strada significa avanzare senza pretendere certezze assolute?
«Non si può conoscere l’imprevedibile, ma se ne può prevedere l’eventualità. La vita è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso isole di certezze. Anche se celata o rimossa, l’incertezza accompagna la grande avventura dell’umanità, ogni storia nazionale, ogni vita individuale.
Perché ogni vita è un’avventura incerta: non sappiamo prima quello che ci attende né quando arriverà la morte. Facciamo tutti parte di questa avventura, piena di ignoranza, ignoto, follia, ragione, mistero, sogni, gioia, dolore. E incertezza».
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