Arte
Due mostre a Parigi e Venezia celebrano gli ottant’anni di David Hockney, l’artista che dipinge con tutto: pennelli, polaroid, video, iPad
Il Regno Unito passerà alla storia dell’arte del Novecento per tre pittori: Francis Bacon (1909-1992), Lucian Freud (1922-2011) e David Hockney i cui ottant’anni vengono celebrati in Europa e in America. La grande retrospettiva aperta a febbraio alla Tate si è ora trasferita al Centre Pompidou (fino al 23 ottobre), per approdare poi al Metropolitan Museum di New York. A Venezia, Ca’ Pesaro ospita una mostra più piccola ma molto interessante, dedicata ai ritratti: tutti dello stesso formato, dipinti tra il 2013 e il 2016, ottantadue personaggi scelti da Edith Devaney sotto la direzione scientifica di Gabriella Belli, ci guardano inquieti, assorti o beffardi circondati dai colori accesi e assoluti così classici dell’artista inglese. Anche questa esposizione girerà l’Europa e l’America: sono previste tappe al Guggenheim di Bilbao e al Los Angeles County Museum of Art.
Ma è la mostra partita da Londra e ora a Parigi, realizzata grazie alla collaborazione dei tre musei, a mostrare una eccezionale ricchezza di opere: sono oltre centosessanta tra dipinti, disegni, incisioni, e altri media. Il curatore Didier Ottinger mette a fuoco tutta la carriera di Hockney: dagli esordi a Bradford ai venticinque anni trascorsi a Los Angeles fino al rientro in patria. L’edonismo solare della California con Bigger Splash (1967) o con Ritratto di un artista (1972) – acrilici su tela di oltre due metri – sono diventati un’icona del suo iperrealismo raffinato a cui seguirono altre piscine in cui la prospettiva sembra evocare origini rinascimentali. Sarà la California bruciata dal sole la sua seconda patria: qui si confronta col formalismo astratto e dipinge facciate di case, gasometri o edifici industriali. Non ama l’acquerello perché dopo il terzo velo di colore non è più possibile intervenire. Le mani di acrilico diluito invece possono essere sovrapposte numerose volte e danno lucentezza alla forme, siano esse il velo dell’acqua di una piscina o una strada notturna con le luci riflesse nelle pozzanghere. E qui è Van Gogh il suo referente. Cosa che ben s’intende dal suo libro Il Segreto svelato (2002) e nelle Conversazioni di Martin Gayford (2012). Una vena espressionista affiora anche in taluni paesaggi del Grand Canyon e di Santa Monica. Al rientro in patria Hockney ritrova nelle campagne dello Yorkshire il fil rouge di una funambolica creatività. Il paesaggio agreste viene dipinto, fotografato, inciso, disegnato fino ad avvalersi di tutti i mezzi offerti dalla tecnologia contemporanea: computer, fax, Polaroid, iPhone, iPad. Classificare questa produzione per tecniche non ha senso perché essa ha sempre la medesima intensità creativa. Più utile è capire quali siano state le stelle del suo universo visivo. Hockney, come dimostrano i suoi scritti, d’altronde è un grandissimo conoscitore d’arte. E nelle sedici sale tematiche in cui è scandita la mostra, si vede quanto questa conoscenza sia precipitata nella sua pittura. Nell’ Autoritratto (1954) giovanile, dipinto con tinte squillanti, affiora per esempio la lezione di Matisse per il piacere del colore. Ma l’artista ha guardato, ovviamente, anche a Picasso («il più grande di tutti») per la scomposizione cubista e la inesauribile versatilità che scopre in una mostra a Londra, a Jean Dubuffet per la sua vena naïf. In Usa lo colpiscono il genio di Edward Hopper (un suo antesignano) e di Jasper Johns che con la sua geometria gli apre gli occhi sulla pop art. La pittura di Hockney è un levigato minimalismo con paesaggi di grandi dimensioni o piccoli segni sull’iPad. Nella mostra parigina ci sono sezioni che presentano opere stupefacenti per un artista figurativo. In Dream inn, Santa Cruz ( 1966) (solo 36,5 per 43 centimetri) il disegno di un ragazzo dormiente, con tratto leggerissimo a matita, è sovrastato da due grandi macchie di colore (una grigia e una azzurra) e da un esile segno arancione. La figura quasi scompare sotto la forza del colore: siamo ai confini dell’astrazione. Eppure è lo stesso pittore che tra il 2010 e il 2011 crea le Quattro stagioni: la Primavera è un bosco frondoso in cui penetra la luce, un intrico di alberi, nell’ Autunno i verdi sono più intensi, l’ Estate non è certo quella folgorante della California, nell’ Inverno gli alberi stecchiti sono immersi nel bianco abbagliante di una nevicata. L’opera non è un complesso di tele ma è costituita da trentasei video digitalizzati e sincronizzati presentati su trentasei monitor di centotrentanove centimetri. Questa visione dura quattro minuti. Dirne al lettore è un’impresa senza speranza: bisogna sostare dinanzi ai trentasei monitor per capire di cosa sia capace un artista ottantenne con i media del nostro tempo. Ma ha ragione Hockney: conviene dire homo pictor non homo sapiens.
Ma è la mostra partita da Londra e ora a Parigi, realizzata grazie alla collaborazione dei tre musei, a mostrare una eccezionale ricchezza di opere: sono oltre centosessanta tra dipinti, disegni, incisioni, e altri media. Il curatore Didier Ottinger mette a fuoco tutta la carriera di Hockney: dagli esordi a Bradford ai venticinque anni trascorsi a Los Angeles fino al rientro in patria. L’edonismo solare della California con Bigger Splash (1967) o con Ritratto di un artista (1972) – acrilici su tela di oltre due metri – sono diventati un’icona del suo iperrealismo raffinato a cui seguirono altre piscine in cui la prospettiva sembra evocare origini rinascimentali. Sarà la California bruciata dal sole la sua seconda patria: qui si confronta col formalismo astratto e dipinge facciate di case, gasometri o edifici industriali. Non ama l’acquerello perché dopo il terzo velo di colore non è più possibile intervenire. Le mani di acrilico diluito invece possono essere sovrapposte numerose volte e danno lucentezza alla forme, siano esse il velo dell’acqua di una piscina o una strada notturna con le luci riflesse nelle pozzanghere. E qui è Van Gogh il suo referente. Cosa che ben s’intende dal suo libro Il Segreto svelato (2002) e nelle Conversazioni di Martin Gayford (2012). Una vena espressionista affiora anche in taluni paesaggi del Grand Canyon e di Santa Monica. Al rientro in patria Hockney ritrova nelle campagne dello Yorkshire il fil rouge di una funambolica creatività. Il paesaggio agreste viene dipinto, fotografato, inciso, disegnato fino ad avvalersi di tutti i mezzi offerti dalla tecnologia contemporanea: computer, fax, Polaroid, iPhone, iPad. Classificare questa produzione per tecniche non ha senso perché essa ha sempre la medesima intensità creativa. Più utile è capire quali siano state le stelle del suo universo visivo. Hockney, come dimostrano i suoi scritti, d’altronde è un grandissimo conoscitore d’arte. E nelle sedici sale tematiche in cui è scandita la mostra, si vede quanto questa conoscenza sia precipitata nella sua pittura. Nell’ Autoritratto (1954) giovanile, dipinto con tinte squillanti, affiora per esempio la lezione di Matisse per il piacere del colore. Ma l’artista ha guardato, ovviamente, anche a Picasso («il più grande di tutti») per la scomposizione cubista e la inesauribile versatilità che scopre in una mostra a Londra, a Jean Dubuffet per la sua vena naïf. In Usa lo colpiscono il genio di Edward Hopper (un suo antesignano) e di Jasper Johns che con la sua geometria gli apre gli occhi sulla pop art. La pittura di Hockney è un levigato minimalismo con paesaggi di grandi dimensioni o piccoli segni sull’iPad. Nella mostra parigina ci sono sezioni che presentano opere stupefacenti per un artista figurativo. In Dream inn, Santa Cruz ( 1966) (solo 36,5 per 43 centimetri) il disegno di un ragazzo dormiente, con tratto leggerissimo a matita, è sovrastato da due grandi macchie di colore (una grigia e una azzurra) e da un esile segno arancione. La figura quasi scompare sotto la forza del colore: siamo ai confini dell’astrazione. Eppure è lo stesso pittore che tra il 2010 e il 2011 crea le Quattro stagioni: la Primavera è un bosco frondoso in cui penetra la luce, un intrico di alberi, nell’ Autunno i verdi sono più intensi, l’ Estate non è certo quella folgorante della California, nell’ Inverno gli alberi stecchiti sono immersi nel bianco abbagliante di una nevicata. L’opera non è un complesso di tele ma è costituita da trentasei video digitalizzati e sincronizzati presentati su trentasei monitor di centotrentanove centimetri. Questa visione dura quattro minuti. Dirne al lettore è un’impresa senza speranza: bisogna sostare dinanzi ai trentasei monitor per capire di cosa sia capace un artista ottantenne con i media del nostro tempo. Ma ha ragione Hockney: conviene dire homo pictor non homo sapiens.
La Repubblica – Cesare De Seta – 30/07/2017 pg. 48 ed. Nazionale ROBINSON.