Incaricato dall’editore Rizzoli di un servizio su Paolo Uccello, nel febbraio 1970 – la data segnata è il 9 – Ennio Flaiano si reca a Firenze ma è il giorno di chiusura degli Uffizi e anche il Chiostro Verde di Santa Maria Novella è sbarrato per restauro. È l’arte nella serrata di un giorno solo, la stessa di quella che oggi si replica di settimane e forse mesi.Il sindaco Dario Nardella, infatti, incalzato dal Coronavirus, non può aprire gratuitamente i musei ai visitatori e quel che Flaiano ieri, aspettandosi da quella gita la fine dell’arte, annota nel suo taccuino – “è venuta la fine della moda” – nella vita quotidiana del 2020 impone all’arte l’apnea di una parentesi. Non il riposo, non il restauro sbarra il passo al visitatore, bensì la seccia secca tutta di ossa e falce. Col Giacomo Leopardi de Le Operette morali, nel Dialogo tra la Moda e la Morte, la moda colta nel suo finire trova giusto controcanto – ebbene sì, la cronaca lo conferma – nel morbo che tutto si prende.

L’arte al tempo dei musei chiusi, con tutto che chiude per l’incombere della morte, reclama un salto mentale pari al gesto dissacrante di Flaiano quando – ed ecco il libricino edito da Henry Beyle, Il tempo dietro il tempo, a cura di Anna Longoni – compra da Alinari le riproduzioni delle pitture che non ha potuto ammirare, le distende sul lettone e lì, per interposto salto spazio-temporale, intavola un’intervista immaginaria con l’autore e ne ricava uno scandaglio sul senso sapiente dell’arte, benedetto dalla sua fantasia.

Ognuno che è dipinto, e così ogni cosa raffigurata, perfino un bruciolo, pensa di essere al centro del quadro, dell’opera e della rappresentazione. E figurarsi cosa pensa di sé il visitatore che va alla mostra e invece – senza avviso alcuno – trova chiuso. Non è più il soggetto destinato ma si ritrova già bello che cancellato.

Che valgono le visite alle vernici in confronto alla sanità pubblica? Ancora una settimana fa, quasi un assaggio del decreto di appena ieri – sì, nì, no e dunque sì, tutto chiuso – la mostra di Francis Bacon e Lucian Freud al Chiostro del Bramante, un’affascinante esposizione promessa al pubblico dall’autunno scorso fino a tutto febbraio, nel bel sabato a braccetto, tra i vicoli di Roma, per il sì e per il no è già chiusa. Nell’assenza di illuminazione, la locandina di Bacon e Freud – parca, appena leggibile nella penombra – sembra più viva.

L’immateriale e l’immaginario, ormai, resta da dire. Nella pesantezza della pratica ministeriale, in tema d’arte occorre organizzarsi senza il consolo della contemplazione. Basta un niente per chiamare le cose col nome di altre cose, e non è la definizione di metafora voluta da Aristotele, piuttosto l’effetto dell’esaurimento di qualunque emergenza. L’irreale prende possesso della realtà. Flaiano, in questa lettura, si ricorda di una coppia di cavalli da tiro dipinti da Paolo Uccello, a un certo punto uno dei due quadrupedi sporca per terra e quella cacca fatta sul momento – sebbene dipinta – si trasfigura in Flaiano in una malinconia sconsolata, e chissà quanto invincibile può diventare adesso lo struggimento, ora che nessuno può vederla nel suo parallelepipedo chiuso.

Il cavillo avvolge il sigillo del buonsenso. C’è sempre un raglio di somaro prima che spari il cannone. Le disposizioni del legislatore ai teatri, per esempio – visto che le prose non richiamano assembramenti di gente – sono di garantire al pubblico, accomodato in sala, una distanza di almeno 100 cm tra persona a persona. “Nei fatti impossibile” – annota l’Agis – dunque è “inapplicabile” il decreto, ed è perciò sospeso qualunque atto delle muse. L’arte al tempo del museo chiuso coincide col dipanarsi del più ingombrante presentimento. Svagato e al contempo attento è Flaiano, in quel giorno di tutto chiuso, costretti all’urgenza siamo tutti noi nel già decretato: “Il negro che nella Cappella degli Scrovegni tiene alta la verghetta per flagellare il Cristo, e non colpisce, annunzia”, scrive appunto Flaiano, “l’inizio della tragedia”.

Ed eccola, la tragedia. Un’apnea senza molte pratiche, per dirla con Paolo Uccello, quando – interrogato – si svela solo, quasi selvatico, “praticando” poco gli amici, trascorrendo le settime e i mesi in casa, senza lasciarsi vedere. Chiamato Uccello perché dipingeva uccelli, Paolo di Dono, il pittore che mette lepri e levrieri sullo sfondo delle battaglie, parla e poi parla ancora e quel suo discorrere – in chi lo ascolta, e noi leggendo – si tramuta in dolcezza, anzi, in sepoltura. Tale e quale i pennelli di Giorgio Morandi che non li buttava tra i rifiuti: “Li sotterrava nel suo orto”, scrive Flaiano, “per mettere a riparo dalla corruzione anche i più umili arnesi del suo lavoro; ché avevano partecipato al suo lavoro e dovevano mantenerne il segreto”. Tale e quale l’arte al tempo dei musei chiusi. Segreta. Sotterrata nell’orto dei decreti.