Il Pietro Tacca di Carlo Fontana a Carrara

Sembrano mossi da una folata di vento il vasto berretto floscio e i larghi baveri del mantello che Carlo Fontana (1865-1956) indossa davanti allo specchio quando, nei primissimi anni del Novecento, esegue un suo autoritratto a guazzo.

Delinea il suo volto nell’atteggiamento di chi, nel colpo di vento che lo investe, sta saldo, lo sguardo concentrato come a valutare con grande attenzione critica qualcosa che tenga fra le mani: uno schizzo, la prima idea di un abbozzo in creta? La fronte è ampia, sottile il naso e la barba mostra qui come bene possa esser detta ‘l’onor del mento’.

Un’immagine di sé fedele e somigliante ove si avverte che egli si idealizza nella figura dell’artista se, giusto l’antico monito Ars longa, vita brevis, quel vento che agita il mantello allude al trascorrere impetuoso della vita, e quello sguardo dice d’un’intensa concentrazione che costantemente ha da tenere l’artista stretto nel perseguire il suo disegno, nel mantenersi in contatto con la sua ‘invenzione’. Del resto, a Carrara, sulla facciata della casa ove lo scultore è nato, è posta una targa che, in una frase che si può dire perfetta, recita: «con lo scalpello Carlo Fontana rivelava e avvivava la vita».

Se teniamo presente di Fontana specialmente le realizzazioni del ventennio di fine Ottocento quel rivelare effettive situazioni e condizioni di vita del tempo suo indica bene il senso della sua ricerca. Mi limito a citare come esemplari le sculture giovanili quali Emigranti e Diseredato.

L’arte rivela, dunque pone in luce, denuncia fino ad indurre alle conseguenze ‘politiche’ che ne derivano. E, poi, oltre il rivelare l’avvivare. Cioè «il dare vita; il rendere vivo; il riportare in vita (anche con un miracolo o un prodigio); il far risorgere; il riacquistare intensità», come insegna il Grande Dizionario della Lingua Italiana del Battaglia. Un eccezionale risultato di questa poetica del rivelare e dell’avvivare, deve considerarsi il monumento allo scultore Pietro Tacca (1577-1640) una delle glorie artistiche più alte di Carrara, commissionato dal Comune a Fontana per essere collocato davanti all’Accademia di Belle Arti e inaugurato nell’anno 1900.

Come è noto tra le opere più celebri del Tacca si annoverano, universalmente ammirati, i bronzi dei Quattro mori che ornano il monumento marmoreo a Ferdinando I Granduca di Toscana di Giovanni Bandini, elevato a Livorno tra il 1595 e il 1626. Ferdinando che voleva esser celebrato come colui che aveva sconfitto i barbareschi e reso sicuro il Tirreno dalle incursioni sulle coste e dalla pirateria e i quattro prigionieri mori effigiati dal Tacca sono incatenati, le braccia dietro la schiena. Fontana immagina il grande scultore barocco seduto su uno sgabello del suo studio, al lavoro. Ma avviva il Tacca facendo ricorso ad una straordinaria invenzione. Decide di conferire al Tacca i tratti del suo volto. Così quell’autoritratto a guazzo e quel viso scolpito sono perfettamente sovrapponibili.

Si diceva dei prodigi dell’arte: per Fontana farsi il ritratto nelle vesti del Tacca vale immedesimarsi nell’antico maestro. Un sortilegio questo, l’impersonare lo scultore barocco, che pone due secoli e mezzo dopo Fontana in una posizione di esclusivo, misterioso privilegio.

Il privilegio di ‘sentirsi’ intimamente il Tacca ed essere dunque in grado di entrare, per così dire, nei pensieri medesimi di lui, fino a conoscerne le prime idee vagheggiate e poi non realizzate riguardo ai Quattro mori e poter dar conto allora delle soluzioni che vengono dal Tacca adottate, come si può a tutt’oggi constatare a Livorno nell’opera compiuta.

Così Fontana scolpisce il monumento raffigurando il Tacca nello studio mentre mostra al modello del moro che ha innanzi come ha da mettersi in posa, e rimanere, purtroppo scomodo e per qualche ora, con le mani dietro la schiena e curvo in avanti, le gambe costrette a non star dritte.

Ecco che mentre Fontana è divenuto il Tacca, il Tacca a sua volta, in virtù dello scalpello prodigioso di Fontana diviene, assumendone la postura, il moro di bronzo che ha concepito di fondere per il monumento a Ferdinando I.

 

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