Il museo digitale rigenera anche la città

di Stefano Bucci

L’arte digitale cambia il destino dei musei che, da classici spazi dove mettere in mostra i capolavori secondo una sequenza determinata, si trasformano in cavità essenziali dove le emozioni si accavallano, in palinsesti interattivi dove regna felicemente la contaminazione dei linguaggi, in black box (perché nei nuovi musei digitali quello che conta è il buio, non la luce) che mettono sullo stesso piano opere e visitatori.

Aspettando il Mad — il primo Museo dell’arte digitale in Italia che sarà ospitato nell’ex Diurno di Porta Venezia a Milano (a dirigerlo sarà Ilaria Bonacossa) — due settimane fa il governo dell’Arabia Saudita ha annunciato ufficialmente la nascita dell’Art Balad Culture Square (in costruzione già da quasi un anno, sarà completata entro il 2022). Si tratta di un grande polo dedicato alle arti nel centro di Gedda, 4 milioni di abitanti, la seconda città dell’Arabia dopo la capitale Riad, nonché il più importante porto commerciale del Paese e punto di passaggio per i pellegrinaggi verso le città sacre dell’islam, la Mecca e Medina: un progetto basato su due edifici simbolo, il Red Sea Film Festival Palace (il Palazzo del Cinema) e, appunto, il TeamLab Digital Art Museum, il museo per l’arte digitale dedicato ai pionieri dei mondi immersivi, il collettivo giapponese TeamLab.

A firmare il progetto è lo studio romano Schiattarella Associati (di cui fanno parte il fondatore Amedeo con i due figli Andrea e Paola, che si occupa di interior design). Vincitore di un concorso internazionale, lo studio affronta per la seconda volta il tema degli spazi per l’arte digitale: già in fase avanzata, a Riad, è infatti il cantiere del Diriyah Art Futures, primo museo al mondo interamente progettato per opere computer based, nel quale gli spazi espositivi sono affiancati da aule per la formazione e la ricerca più avanzata: dai robot al metaverso, agli Nft.

Il TeamLab Digital Art Museum di Gedda e, più in generale, l’Art Balad Culture Square si propongono — spiega Lucio Frigo, executive advisor del ministero saudita della Cultura che ha fortemente voluto il progetto — «di aprire una nuova rotta dell’arte nella regione», attualizzando elementi della tradizione come la mashrabiyya (la griglia che caratterizza l’architettura dell’area) «per rigenerare l’intera città vecchia nel segno di una tecnologia a dimensione dell’uomo».

La costruzione di un museo in Arabia Saudita che ospiti l’arte digitale rientra nella sfida globale avviata il 28 giugno 2018 con l’inaugurazione del TeamLab Borderless Mori Building Digital Art Museum sull’isola artificiale di Odaiba, a Tokyo, di fatto il primo museo al mondo a presentare esclusivamente una collezione permanente di arte digitale (a inaugurarlo, come a Gedda, era stato proprio il TeamLab). Il museo giapponese oggi si autodefinisce come «un gruppo di opere d’arte che formano un mondo senza confini, escono dalle stanze, comunicano con altre opere, si mescolano tra loro». Un museo che invita il visitatore «a immergere il corpo in un mondo tridimensionale di 10 mila metri quadrati per vagare, esplorare con intenzione, scoprire, creare un nuovo mondo con gli altri» e dove attualmente si possono vivere le esperienze — impossibile chiamarle mostre — di Seasonal Colour: Snow e Seasonal Colour: Fire on Ice.

Sull’onda di questa sfida l’arte digitale si è già ricavata ampio spazio all’interno di strutture «classiche» come il Whitney, il Moma e il New Museum a New York o la Serpentine Gallery a Londra. Imponendo anche la realizzazione di strutture ex novo come lo Zkm Center for Art and Media a Karlsruhe (Germania), il Seattle Nft Museum (Usa), l’Ars Electronica Center a Linz (Austria), l’HeK a Basilea e il Muda a Zurigo (Svizzera), il Fact a Liverpool (Regno Unito), Les Bassins des Lumières a Bordeaux (Francia), l’Atelier des Lumières a Parigi. «Quello di Gedda — dice Amedeo Schiattarella — sarà uno spazio nuovo e non, come è successo finora, uno spazio preesistente, magari abbandonato e che proprio con l’arte digitale viene in qualche modo riciclato. Stavolta abbiamo voluto mettere in piedi un’architettura contemporanea che non dimentichi le origini, la tradizione e la storia del territorio che la ospita ma che sia anche capace di guardare a una classicità più universale. Penso alle architetture di Piranesi e alle tante accademie italiane dove si studia, si lavora, si fanno mostre».

Al TeamLab Digital Art Museum, come negli altri musei digitali, verrà ridefinita l’idea stessa di fruizione dell’arte: con l’opera che occupa l’intero spazio del museo (soprattutto il vuoto), che viene «attraversata» e non semplicemente «guardata» (visto che le pareti reali sono dissolte dall’illusione digitale), mentre il museo si confronta con questioni come la sostenibilità (dovendo fornire enormi quantità di energia per tenere in vita le opere digitali), la sicurezza, l’archiviazione, il continuo aggiornamento dei software. Non a caso a fare da apripista al museo di Gedda sarà il lavoro di TeamLab con le sue installazioni immersive, luminose, ispirate ai fenomeni naturali e intese a stupire e coinvolgere.

Il collettivo nipponico, fondato dall’ingegnere Inoko Toshiyuki nel 2001, raccoglie artisti, programmatori, matematici, architetti e animatori, tutti anonimi e tutti impegnati nella progettazione e nella realizzazione di opere d’arte in grado di esplorare la complessa e antica relazione tra l’uomo e la natura, utilizzando i mezzi tecnologici più avanzati. Spinto dalla necessità di creare un luogo permanente per l’esposizione delle sue creazioni, il collettivo aveva inaugurato il Mori Building Digital Art Museum: uno spazio che abbatte i confini tra le arti, tra l’arte e gli spettatori, tra noi stessi e gli altri, «permettendo ai visitatori di dissolversi nell’arte diventando parte di essa». Come nel caso di Wander through the Crystal Universe (2016), un ambiente all’interno del quale sono gli spettatori stessi a governare le luci e dunque la percezione dello spazio attraverso la loro presenza e l’uso di un’App dedicata.

Altro elemento essenziale del progetto dello Studio Schiattarella è la collocazione del TeamLab Digital Art Museum sulla laguna di Al Arbaeen, in prossimità di Al Balad, la città vecchia di Gedda, dichiarata patrimonio dell’Unesco nel 2014: «La vicinanza fisica ad Al Balad — spiega Paolo Schiattarella — ci ha dato l’opportunità di riflettere. La città vecchia, costruita a misura d’uomo, appare allo stesso tempo compatta ma anche “permeabile” verso l’esterno, una sequenza assai articolata di spazi e volumi».

L’alternanza di pieni e vuoti permetterà di creare un paesaggio ricco, dominato dal contrasto tra la luminosità delle superfici esposte al sole e le ombre profonde dei vicoli, dei cortili. Con la città che sembra diventare un unico organismo, accessibile da tutte le direzioni sia fisicamente che visivamente (fondamentale è stato anche il recupero del rapporto con la laguna su cui Gedda si affaccia). Un edificio, quello del nuovo museo digitale, pieno di fratture e cavità che permetterà al vento di penetrare in profondità nella città, mentre la «continuità urbana» viene ricreata dalle pareti intonacate bianche o da quelle in pietra corallo.

Il progetto per Gedda si inserisce in una più ampia strategia di rigenerazione del centro storico, che ha tra i suoi obiettivi lo sviluppo sociale e culturale del quartiere, ricollegandolo fisicamente e simbolicamente al mare. Il sito è limitato da Madinah Road a ovest, Hail Street a est, Hamzah Shathata Road a nord e la nuova Corniche lungo la laguna a sud. La presenza della laguna e del futuro lungomare pedonale rappresenta una caratteristica essenziale del sito.

Altra caratteristica importante è la presenza dell’edificio storico di Beit Amir Al Bahr, la «Casa del Principe del mare», costruita all’inizio del XX secolo, che fa da perno all’intera riqualificazione. Ai lati dell’edificio, si affiancano il Museo e il Palazzo del Cinema, futura sede di quel Red Sea Film Festival destinato a diventare il festival cinematografico più importante di tutto il Medio Oriente. Un progetto che crea un frammento di città dimensionato a misura d’uomo, inteso a indurre la stessa sensazione di trovarsi in un «dentro» che dovrebbe scaturire dalla visita di un museo d’arte digitale. In un ideale intreccio tra tecnologia, storia e cultura, perché, precisa Amedeo Schiattarella, «l’intervento contemporaneo non può rinunciare al suo potenziale innovativo. Deve comunque svilupparsi rispettando e tenendo conto dei valori identitari della cultura dei luoghi».

 

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