Il Monte e il rischio localismo

Banche e politica

di Roberto Barzanti

Non c’era da attendersi qualcosa di più o decisioni ultimative dal cda del Monte del Paschi del 17 dicembre. Aveva il compito di varare un piano strategico che definisse di qui al 2025 le operazioni della banca necessarie per affrontare credibilmente il futuro ed è superfluo snocciolare le cifre limate con prudenza per non appesantire un quadro già allarmante. Entro gennaio è in programma una nuova seduta di consiglio — il 19 — che dovrà chiarire le modalità dell’inevitabile aumento di capitale da sottoporre alla Bce. Occorre reperire una cifra sui 2 miliardi e oltre. Dal 2023 dovrebbero rispuntare utili, anche se non consistenti. I cosiddetti esuberi sono stati quantificati in 2.670 unità ed è il terzo grosso taglio in otto anni. Tralasciando tutti gli altri interventi, certi o ipotetici, per gli accantonamenti da iscrivere a bilancio allo scopo di fronteggiare un’ampia gamma di contenziosi, conviene soffermarsi su comprensibili preoccupazioni: accresciute dal fatto che una fusione da molti deprecata aumenterebbe il livello già consistente dei tagli e acuirebbe le ostilità. Il nodo più spinoso che la banca ha davanti non è tanto il dilemma se fondersi, aggregarsi o meno, quanto l’individuazione del soggetto — o dei soggetti — con cui contrarre matrimonio. Dimensione europea o agglomerazione italica?

A decidere sarà il Mef. Molte voci vorrebbero che la partecipazione statale si protraesse a tempo indeterminato, ma ufficialmente è stata ribadita — e non poteva essere altrimenti — la fedeltà al piano concordato con le autorità europee, che impone un’uscita della presenza del Tesoro entro il 2021. Magari allungabile, anche per l’emergenza Covid-19, che ha sconvolto il calendario fissato. Non è un mistero che la potente Federazione Autonoma Bancari Italiani prediliga una confluenza tra Monte, Carige e PopBari nella convinzione che sarebbe meno dolorosa e radicherebbe sul patrio suolo una prestigiosa realtà. Finora il ministro Gualtieri sembra, invece, preferire l’approdo a Unicredit. C’è da augurarsi che la scelta sia determinata da valutazioni di merito. Nessuno mette in discussione un confronto ravvicinato con le richieste sindacali, ma limitatamente ai temi pur cruciali che rappresentano. Purché l’esame del futuro abbia come fulcro la credibilità di un piano che acceleri la ripresa della banca e il consolidamento di un sistema da revisionare. Le garanzie occupazionali vanno precisate al meglio, ma sono una non secondaria componente della prospettiva da definire. Altro obiettivo è la missione da preconizzare. Dalla relazione ascoltata si coglie la volontà di dedicarsi più a diffusi interventi quali mutui e prestiti, cioè al retail, in anni difficili che non a scommettere su operazioni di corporate banking. Un fattivo rapporto con un variegato territorio è senz’altro da coltivare. Ma anche in quest’ambito bisognerà guardarsi dal rischio di restringersi in uno spazio localistico. Che non ha portato meno danni, quanto a crediti deteriorati, di linee più espansive. Taluni paiono sognare una banchetta regionale o giudilì, con il retropensiero di padroneggiarne meglio poteri e apparati. C’è chi si è spinto a dire che la Fondazione Mps deve tornare protagonista. Che una presenza della Fondazione sia utile e in grado di incidere non v’è dubbio. Che possa avere una funzione rilevante è fuori dall’ordine delle possibilità. E stonano le prese di posizione del presidente Giani, il quale ha addirittura confessato di vivere con drammaticità una fusione con chicchessia. Si vuole per forza un Monte stand-alone? L’itinerario che abbiamo davanti esige razionalità, efficienza, innovazione. E una sorta di peronismo in salsa leopoldina non paga. La Regione si faccia sentire, e il Comune di Siena rompa il silenzio che almeno formalmente osserva. Senza indulgere a nostalgie falsamente rassicuranti.

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Riporto l’articolo dell’amico Roberto pur rimanendo fortemente critico su alcuni passaggi del suo intervento. (P.P.)