Il maresciallo della Garfagnana nella terra dei Gattopardi.

GIAMPAOLO SIMI
Questa storia è racchiusa idealmente in uno dei triangoli più letterari di Sicilia, quindi d’Italia. Il primo vertice è a Palma di Montechiaro, il feudo di famiglia che Tomasi di Lampedusa trasfigurerà nei possedimenti di Donnafugata ne Il Gattopardo. Il secondo è ad Agrigento, l’antica Girgenti dove Luigi Pirandello nacque in un quartiere chiamato Cavusu, storpiatura dialettale della parola greca Kaos. E infine c’è Porto Empedocle che, a causa di Andrea Camilleri, prima o poi verrà ribattezzata Vigàta, e che non se ne parli più. Ecco, questa è la storia di un investigatore, di potentati vecchi e nuovi, di molte maschere e anche di un terribile caos. Ma il suo protagonista è toscano, a differenza di Salvo Montalbano è un carabiniere e con la letteratura non ha grande dimestichezza, perché quando era piccolo dalle sue parti arrivò la Linea Gotica e lui fece appena in tempo a finire la quinta elementare.
Giuliano Guazzelli nasce infatti fra le valli della Garfagnana il 6 aprile del 1934. Il paese si chiama Gallicano, un borgo suggestivo che arriva a tremila abitanti con le frazioni. Lo si incontra lungo la strada principale lungo la verdissima valle del Serchio, pochi chilometri prima di arrivare a Castelnuovo. Il dopoguerra in Garfagnana è duro, ma la famiglia Guazzelli non ha problemi, il padre un lavoro ce l’ha, è operaio metalmeccanico. A diciassette anni Giuliano comunque fa la sua scelta: decide di prolungare la ferma nei Carabinieri. Entra nell’Arma giovanissimo e ci trascorre tutta la vita, e non in senso figurato.
Facciamo un salto di quarantuno anni e di milleduecento chilometri. Sabato 4 aprile del 1992 il giovanotto venuto dalla Garfagnana è diventato maresciallo maggiore ed è il capo della polizia giudiziaria di Agrigento. In Garfagnana ritorna a ogni licenza, ma la sua vita è ormai in Sicilia. Vive a Menfi, ha sposato un’insegnante, ha tre figli e sentendolo parlare nessuno direbbe che viene dalla Toscana. Solo la domenica te ne potresti accorgere, quando si porta dietro la radio per seguire la sua amata Fiorentina. Se sembra impossibile diventare siciliani senza nascere sull’isola, questo sottufficiale pare esserci riuscito. Della Sicilia ama il sole, il caldo e la luce che le valli aspre della Garfagnana negano per diversi mesi all’anno. Il maresciallo è uno che lavora senza orari, è spesso in trasferta e quando torna in famiglia prende la vanga e si dedica al suo giardino.
Quel sabato mancano due giorni al suo cinquantottesimo compleanno. Con quarantuno anni di carriera alle spalle potrebbe già essere in pensione, ma lui presta ancora servizio. Troppo forte la passione per il suo lavoro, troppo delicato il momento per la Sicilia e per tutta Italia. In gennaio la Cassazione ha confermato quasi tutti i duemilacinquecento anni di carcere del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone contro Cosa Nostra. Una sconfitta epocale per la mafia che il 12 marzo ha risposto uccidendo Salvo Lima, il potentissimo uomo di Andreotti in Sicilia. L’indomani, 5 aprile, si tengono le elezioni politiche che cadono proprio in mezzo alle prime inchieste di Tangentopoli.
Giuliano Guazzelli lascia il suo ufficio di Agrigento intorno alle 13. È tranquillo, dice chi lo incontra, ma uno come Guazzelli la maschera della tranquillità ha dovuto imparare a indossarla spesso. Negli anni intorno a lui sono caduti in tanti, dal colonnello Russo al maresciallo Jevolella, con cui a Palermo indagava sui Corleonesi. L’ultimo è stato il giudice e amico Rosario Livatino, assassinato appena due anni prima.
Guazzelli viaggia disarmato e la sua Ritmo non ha vetri blindati. Non ha mai voluto una scorta perché, dice, servirebbe solo a dare nell’occhio. Quando un furgone lo sorpassa su un viadotto, il maresciallo fa appena in tempo a tentare la frenata. Il portellone posteriore si apre e la sua auto viene investita da un uragano di colpi.
Carmelo Sardo oggi lavora a Roma nella redazione di un tg di Mediaset. Nel 1992 muoveva i suoi primi passi in un’emittente tv locale. Ricorda ancora benissimo quel sabato 4 aprile. «Successe a trecento metri dal nostro ufficio, salimmo sul tetto di un palazzo per vedere dall’alto la scena e capire cosa fosse successo. Avevo incontrato diverse volte Guazzelli. Era burbero, poco loquace, schivo. L’aspetto era quello, oserei dire quasi innocuo, del classico maresciallo un po’ all’antica. Ma noi cronisti di nera sapevamo che non era affatto così. E quando mi dissero che dentro quell’auto crivellata di colpi c’era lui, rimasi sconvolto». E sconvolto appare anche Paolo Borsellino che da Palermo si precipita subito sul luogo dell’agguato. Il presidente della Repubblica Cossiga, che ha appena lasciato la Sicilia, torna per i funerali.
Quella del tranquillo maresciallo di provincia era solo una maschera. Sotto, c’era la grinta del mastino. Così lo chiamava chi aveva lavorato con lui in inchieste complesse e delicate. Quando nel 1983 viene ammazzato il boss agrigentino Carmelo Colletti, è Guazzelli a bussare alla porta di Benedetta Bono, la sua amante. Non le dice subito che il suo uomo è morto. Capisce che Benedetta non è una di quelle donne di mafia votate dal vincolo familiare all’omertà. Per stare accanto a Colletti Benedetta ha sfidato ogni convenzione, ora che gliel’hanno ucciso potrebbe accettare di sfidare anche Cosa Nostra. È un’intuizione giusta, fondamentale per tracciare la mappa della mafia agrigentina.
Guazzelli era anche stato fra i primi a capire che dietro la rapida ascesa e il rovinoso crack della Banca Girgenti si stagliava l’ombra del riciclaggio. Poi arriveranno le ispezioni della Banca d’Italia, governatore Carlo Azeglio Ciampi. Proprio all’inizio del 1992 a Giuliano Guazzelli il notabile democristiano Calogero Mannino confidò: «Ora ammazzeranno me o Salvo Lima». Oggi sappiamo che non erano paure infondate.
Paolo Borsellino considerava Guazzelli suo punto di riferimento per la provincia di Agrigento, dilaniata per anni da una guerra di mafia spaventosa. Più di quattrocento morti, famiglie intere decimate e una situazione che si avvicinava ormai al caos puro. Guazzelli era uno dei pochi che, grazie a una rete di confidenti e informatori, riusciva a capirci qualcosa. Il maresciallo arrivato dalla Garfagnana con la quinta elementare scrive in un italiano limpido e preciso, e ricostruisce al millimetro l’organigramma di un nuovo fenomeno mafioso chiamato Stidde. Cosa sono le Stidde? Nuove costellazioni mafiose che sfidano Cosa Nostra? Cosche perdenti messe ai margini dalla violenta ascesa dei Corleonesi? Sodalizi che provano a insediarsi nelle province dove Cosa Nostra lascia qualche spazio? Oppure gruppi di criminali comuni che in realtà vengono usati come pupi dai soliti gattopardi? Così è se vi pare, potrebbe rispondere Pirandello, nel senso che ognuna di queste risposte contiene una parte di verità.
Sta di fatto che Guazzelli, poche ore dopo la morte del giudice Livatino, aveva già capito che quei proiettili venivano proprio dagli stiddari. Quel magistrato incorruttibile era la loro spina nel fianco, la sua feroce esecuzione voleva anche mandare un messaggio a Cosa Nostra: noi facciamo sul serio.
Così, agli stiddari si pensa subito anche per l’omicidio di Guazzelli. Il furgone rubato per uccidere il mastino viene ritrovato a Palma di Montechiaro, uno dei paesi in cui è nato il fenomeno della Stidda.
Quando un anno dopo la Squadra Mobile di Agrigento trova il boss stiddaro Giuseppe Calafato nascosto in un cunicolo dietro un armadio, si è convinti di aver catturato non solo uno dei killer di Livatino, ma anche uno del commando che ha ucciso Guazzelli. Seguono catture di stiddari nascosti in Germania sotto l’insegna di qualche rinomata pizzeria italiana. Si arriva a processo, ci sono due ergastoli, ma anni dopo le dichiarazioni del mafioso Alfonso Falzone aprono uno scenario diverso.
Nel 2005 gli investigatori della Dia volano in Germania. In una minuscola cittadina della Saar arrestano Joseph Focoso, un killer su cui pendono qualcosa come otto ergastoli per una scia spaventosa di omicidi. È stato lui a sparare a Guazzelli con due Magnum il 4 aprile 1992. Giuseppe Fanara, invece, impugnava un Kalashnikov. Calogero Castronovo era l’autista, mentre Falzone aveva seguito l’auto di Guazzelli su una Vespa. A sovrintendere l’operazione Gerlandino Messina, per conto del boss Fragapane su richiesta del capomafia di Ribera, Simone Capizzi. La catena di comando che decise la morte di Guazzelli fu interamente composta di uomini di Cosa Nostra. La pista giusta andava insomma verso Trapani, in direzione anche geograficamente opposta a quella di Palma di Montechiaro. Anche la data scelta, il sabato prima delle elezioni, era un giorno “eccellente”. Forse è solo il senno di poi, ma oggi sembra di leggere chiaramente il volto di Paolo Borsellino che sul viadotto fra gli ulivi allontana i giornalisti, trincerato in un cupo silenzio dietro gli occhiali scuri. Chi, come lui, conosce il calibro di un investigatore come Guazzelli deve aver capito che l’assassinio del maresciallo di Gallicano è la dichiarazione di guerra ufficiale di Cosa Nostra allo Stato.
Fonte: La Repubblica, http://www.repubblica.it