S i potrebbe insomma dire che il centrosinistra rischierebbe di perdere le prossime elezioni anche se fosse unito.
Gli appelli allo stare insieme, al «volemose bene» in nome della vittoria comune, sono perciò spesso puri artifici retorici. Così come l’apertura fatta ieri da Renzi agli scissionisti di Mdp, applaudita anche da molti avversari interni, non sembra destinata a produrre risultati concreti, e sa più di gioco del cerino pre-elettorale, per passare all’altro la responsabilità della rottura.
Non è dunque tutta colpa di Renzi. Ma certo Renzi ci ha messo del suo, in questi anni. Quando in un famoso fuorionda Delrio si lamentò del fatto che i renziani sembravano tutti felici della scissione a sinistra nella convinzione di avere così più seggi da spartirsi, aveva ragione. Il danno che quella rottura arrecò al Pd va infatti ben oltre i voti effettivi che Bersani e D’Alema si porteranno via (vedremo quanti sono); perché colpì al cuore la credibilità di un partito che era nato presentandosi come un contenitore di tutto il centrosinistra, e che invece finisce la legislatura con i due presidenti delle Camere già in campagna elettorale con lo slogan «mai con il Pd».
Con tutto il rispetto per Emma Bonino, per gli alfaniani, e perfino per Pisapia, i tre forni evocati ieri dal segretario del Pd per metter su una coalizione, difficilmente basteranno a ricostruire ciò che è andato distrutto. Ma fin qui siamo alla tattica. Renzi se ne potrebbe pure infischiare se avesse ancora la spinta propulsiva degli inizi, o quella del Veltroni di dieci anni fa. E la ragione per cui non ce l’ha più non è tanto il suo carattere o la sua presunta antipatia (quattro anni fa era simpaticissimo a tutti proprio per il suo carattere); sta piuttosto nel fatto che il Renzi di oggi ha già dato la sua prova di governo, anche lunga, guida un partito che è stato al potere per l’intera legislatura, e dunque non può più promettere un nuovo inizio come se niente fosse. Ancora ieri, mentre in Direzione pronunciava la sua «apertura» a sinistra, il leader era giustamente preoccupato di aggiungere un attimo dopo: «ma senza abiure della nostra opera di governo». Il guaio è che quell’opera è oggi giudicata male dall’elettorato esterno al Pd anche al di là dei suoi demeriti, forse proprio per l’eccesso di aspettative che aveva creato. Un solo esempio: il Jobs act è stata una buona legge per rinnovare il mercato del lavoro, forse la migliore riforma del quinquennio; ma se la presenti come il toccasana che crea occupazione stabile e poi il precariato giovanile torna appena finiscono gli incentivi, ti si ritorce contro, e toglie credibilità anche alle altre riforme che annunci, in una specie di spirale che si è avvitata fino alla sconfitta referendaria.
Renzi avverte questo problema. E infatti da qualche mese sembra tentato di chiedere voti non come il continuatore dell’opera sua e di quella di Gentiloni; ma come il «nuovo» che torna, come l’uomo che riparte daccapo, e perciò prende in prestito temi classici del populismo, per esempio l’attacco all’Europa o a Bankitalia. Ma proprio mentre lui insegue i Cinquestelle, accade che il centrodestra risorge dalla sue ceneri in una versione «governista» che assomiglia sempre di più a Tajani, a Zaia, a Maroni, a Musumeci, come la forza che può fermare il populismo grillino. Il tripolarismo è un ambiente già di per sé molto ostile per un partito riformista; se poi lo stringe come in una morsa, da destra e da sinistra, rischia di stritolarlo.
Forse è già tardi per riparare. Ma qualsiasi tentativo di rilanciare il centrosinistra non può che passare da una rilettura onesta e critica degli anni del governo, finora da Renzi sempre rifiutata, perfino dopo la disfatta referendaria. Non un’abiura, certo; ma un discorso di verità, dopo tanto spin.
Corriere della Sera – Antonio Polito – 14/11/2017 pg. 1 ed. Nazionale.