Il destino delle metropoli

di Francesco Guerrera
Èdi una bellezza triste». L’ossimoro del mio amico Ian quando gli ho chiesto di New York nell’era Covid è la didascalia perfetta per descrivere la crisi delle grandi città. Da New York a Londra, da Roma a Buenos Aires, i cuori pulsanti della vita culturale, economica e sociale per miliardi di persone sono stati attaccati dal virus. Con centri storici vuoti, negozi chiusi e turisti assenti, le megalopoli che non si fermavano mai sono in panne, capaci solo di offrire piaceri melanconici a chi, come Ian, se le può godere senza il solito caos.
Per tanti di noi, l’evoluzione dei centri urbani sarà l’elemento più importante del “nuovo normale” — la vita quotidiana nel post-epidemia.
Politici, imprenditori e mercati sono preoccupatissimi.
Questa settimana, il governo di Boris Johnson ha lanciato una campagna pubblicitaria — “Tutti in ufficio, tutti insieme” — per convincere i britannici a ritornare al lavoro. «Senza i colletti bianchi, i centri urbani stanno diventando città fantasma», dicono i consiglieri del primo ministro, con un occhio ai (terribili) dati economici e un altro ai sondaggi d’opinione (anch’essi non buoni). Nel resto d’Europa, il dibattito sulla riapertura delle scuole sta creando guerre fratricide tra autorità locali e governi centrali, ministri delle finanze e medici, datori di lavoro ed impiegati. E a Wall Street, gli analisti stanno cercando di predire le dimensioni del crollo nel settore immobiliare — commerciale e uffici ma anche residenziale — causato dall’epidemia. Questo è il presente. Ma il futuro? Le opinioni estreme abbondano.
James Altucher, imprenditore, tuttologo e veterano di New York, ha scioccato LinkedIn con un pezzo intitolato: New York è morta. Per sempre . Ecco perché .
A rispondergli è stato niente di meno che Jerry Seinfeld.
Sul New York Times il più famoso comico Usa ha scritto: «Se non ti dispiace ci teniamo New York…Credi che anche Roma scomparirà? Londra? Tokyo? Queste città cambiano, mutano, si ri-formano». Ma il cambiamento sarà radicale. Il virus ama la densità della popolazione e gli agglomerati urbani moderni sono l’habitat ideale per questi killer silenziosi (New York ha circa il 3% degli abitanti Usa ma più del 15% dei decessi causa Covid). Per decenni, gli urbanisti hanno predicato politiche di addensamento per salvaguardare l’ambiente. Ma il modo migliore per contenere il Covid è la disaggregazione. Gli esperti più lungimiranti immaginano una soluzione ibrida: densi quartieri più o meno “autosufficienti” ma non enormi scatole di sardine dove i germi si diffondono rapidamente. Quindi addio ai cinema in centro, alle tante Via del Corso o Oxford Street del mondo e ai viaggi in metro per andare dal parrucchiere.
Karen Harris di Bain lo ha spiegato bene in un recente studio: “Il costo della distanza” da fulcri economici, culturali e sociali, diminuirà. Grazie alla tecnologia, aziende, servizi e consumi saranno svincolati dal tessuto urbano (www.bain.com). Due pilastri del vivere in città — la cultura e il lavoro — ne soffriranno. Chi, come me, ama sia il teatro sia il calcio sa già che non ritorneranno nella forma a cui eravamo abituati. Gli ottimisti dicono che la tecnologia di Netflix, Amazon e Zoom rimpiazzerà i palcoscenici, gli stadi e le sale concerti.
Speriamo. Ma non esiste nessun gadget per replicare le attività produttive create e incoraggiate dai centri urbani. Le città permettono agli esseri umani di tessere reti sociali, intellettuali ed economiche uniche perché interpersonali. Il “successo” del lavoro da casa in questi difficili mesi è stato reso possibile dal fatto che interagiamo con persone che già conosciamo. Non è un caso che gli americani che vivono in città con più di un milione di abitanti sono 50% più produttivi del resto del Paese. Michael Bloomberg fece scalpore quando, da sindaco di New York, respinse le critiche sul costo della vita nella Grande Mela con la dichiarazione: «È un bene di lusso. Ne vale la pena». Le città del post-Covid dovranno trovare il modo di giustificare il prezzo e i rischi del vivere assieme.
L’autore è direttore di Barron’s Group in Europa
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