Il Derain «di» Giacometti: eretico del Moderno

Alberto Giacometti, “Hommage à Derain” (dall’”Autoportrait à la pipe” di Derain), 1955-’57, acquaforte

 

Nel 2017 si tenne al Musée d’Art Moderne di Parigi la mostra Derain-Balthus-Giacometti: un’amicizia artistica. Fu un altro fondamentale tassello, dopo la memorabile mostra del 1994, nel percorso di rivalutazione del Derain meno conosciuto; chiamiamolo il «secondo Derain», l’eretico del moderno, quello dagli anni venti in poi.
La mostra mise in luce la profonda stima, addirittura la venerazione, che i due amici nutrirono nei confronti di Derain fin dai primi anni trenta. Furono idealmente uniti da un ritorno al museo, dall’amore per l’arcaico, da uno sguardo attento verso le civiltà più remote, ma in primo luogo furono uniti dalla loro fedeltà alla realtà visibile. Tutti e tre ancorarono la loro arte ai contorni della figura, del paesaggio, delle cose. Scrisse Derain: «colui che cerca di staccarsi dal reale, finisce per rimanerne vittima. Con esso bisogna convivere, e dimenticarlo».
La scrittrice Edmonde Charles-Roux ci lasciò una bella pagina sulla forte amicizia tra Giacometti e Derain: «Giacometti fu il primo a pronunciare davanti a me la parola “genio” parlando di Derain». L’interesse del bregagliotto per l’opera del pittore di Chatou sorse precocemente se pensiamo che già nel 1928 eseguì una copia del Ritratto di Rita van Leer, ma il «d’après Derain» più significativo è la copia dell’Arlecchino del ’24, pubblicata sulla rivista «Labyrinthe» nel 1945. Ad esso spettò un posto d’onore accanto a tre straordinarie opere «museali»: egizia, greca classica e il quattrocentesco Konrad Witz. Tutte e tre rappresentarono epoche decisive per il Giacometti della maturità; facile quindi dedurre l’importanza dell’opera dell’amico.
La copia di un’opera, dall’antico o dal moderno, era un esercizio fondamentale nel lavoro creativo di Giacometti. Egli comprese benissimo il messaggio derainiano di ritorno alla grande arte dei musei e alle rivelazioni provenienti dall’arcaico. Le copie eseguite dai due artisti della medesima scultura egizia conservata al Louvre sono un manifesto della loro condivisione di idee riguardo al rapporto tra antico e moderno.
Nel 1957 Giacometti dedicò in «Derrière le miroir» un breve, magnifico omaggio a Derain, che ancora oggi è considerato punto di svolta nella storia critica e nella rivalutazione del pittore. È al solito un testo stringato, ma preciso e commosso, scritto con la misura di un classico in cui ogni parola acquisisce peso e profondità. Nacque dalle impressioni ricavate dalla retrospettiva post mortem di Parigi. La sua ammirazione per il «secondo» Derain uscì rafforzata. Produsse anche due acquaforti, copie di opere dell’amico: l’Autoritratto con la pipa e il Ritratto di Iturrino, entrambi del 1914. Fu soprattutto l’Iturrino a impressionarlo. Il solo confronto stringente nella mostra del 2017 fu proprio tra l’Iturrino e il Padre dell’artista di Giacometti (1932), con quell’asprezza che li fa sembrare intagliati nel legno.
Nel suo testo Giacometti parte risalendo al suo primo vero incontro con l’arte di Derain. Un giorno preciso, anzi un minuto preciso nel 1936; lì davanti a lui una natura morta con tre pere che lo colpì «in modo assolutamente nuovo». Il ricordo indelebile di un «immenso fondo nero» che di immenso non aveva certo le misure (24 per 31 cm), ma un magnetismo capace di risucchiare in sé tutto. Da quel momento intuì che egli cercava sempre qualcosa oltre l’apparenza, e non si sbagliava: «L’arte – scrisse Derain – è la penetrazione interna delle cose». Giacometti non era interessato a scegliere tra cose buone e meno buone, perché farlo non avrebbe avuto alcun senso: «Le qualità di Derain esistono solo al di là del fallimento, della sconfitta, della possibile perdizione…» Dunque si trattava di andare ben oltre l’apprezzamento di una o dell’altra opera. «Io credo solo, mi pare, in questo tipo di qualità».
Alla figura dell’amico ora si sovrappone la sua. Non è la ricerca della bellezza, ma della verità che sta dietro le apparenze. Il discorso che vale per Derain, vale anche per lui: cercare di cogliere qualcosa che in verità appare irraggiungibile, una ricerca che significa fin dall’inizio fallimento, ma che è l’unico scopo per cui ha senso creare. È un andare a tentoni che origina quella continua tensione alla creazione indispensabile e insostituibile: «tutto è contraddittorio, voragine senza fondo nella quale ci si perde».
Le opere dei due artisti appaiono ben diverse l’una dall’altra: Derain essenzialmente lavorò sulla luce che possiedono le cose, mentre Giacometti sull’idea di spazio; e tuttavia il traguardo è lo stesso. Per Derain, conclude Giacometti, ogni certezza non aveva più senso. E ciò, viene da dire, lo rivela oggi figura così attuale. Forse nessuno più di lui esprime l’instabile perpetuo, il caos in cui si dibatte da oltre cent’anni l’arte moderna.
Passata l’euforia delle scoperte rivoluzionarie, per Derain non ci fu più teoria che potesse contare. Si scoprì del tutto refrattario ai formalismi e si affidò solo al mestiere del pittore, alla riscoperta degli antichi segreti della pittura. E allora salì in scena il Derain-Fayyum, il Derain pompeiano, il Derain seicentesco, il Derain-Corot, persino il Derain modernista, ma sempre con la sua sensibilità, con il suo modo ardito, con il suo carattere estroverso, e soprattutto col suo perenne dubbio. «La pittura non ha teorie». Nonostante il successo, Giacometti visse una storia simile: la notorietà, quindi l’azzeramento, l’isolamento e la ripartenza in tutt’altra direzione. Insomma, conobbe bene la condizione di Derain e per questo l’ammirò tanto. «Derain è il pittore che mi appassiona di più (…) per me è il più coraggioso».
Nessuno al pari di lui ebbe tanto coraggio nello smantellare i luoghi comuni delle avanguardie, lui che peraltro fu l’alfiere dei più radicali cambiamenti nel primo decennio del Novecento: «Che ingenuità o che debolezza parlare dell’inquietudine della pittura moderna! La divina inquietudine è la compagna di ogni progresso».

 

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