IL DECLINO STRATEGICO DELLA SINISTRA.

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La rinuncia a presentare la legge sullo Ius soli dimostra che le dinamiche della politica italiana sono radicalmente cambiate dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre. Fino al quel momento avevamo un Pd trionfante, sicuro e orgoglioso di sé. Un Pd che governava quasi monopolisticamente a livello centrale e che controllava ancora molte regioni e città. Pur avendo subito alcune sconfitte a livello locale era ancora il dominus della politica italiana, quello che dirigeva, decideva ed, eventualmente, sanzionava. Il segretario-capo del governo assicurava quella unità di comando e di intenti che affascinava molti. Ma finché era vincente. Caduto nella polvere, il suo appeal presso l’opinione pubblica, soprattutto quella che più l’aveva blandito, svanì d’un colpo. Però la sconfitta non riguardava solo la leadership di Renzi. Investiva tutto il Pd. Non lo hanno capito gli inossidabili sostenitori del segretario, quasi un fan club, si direbbe, viste certe manifestazioni, e nemmeno gli oppositori interni, sfilatisi alla ricerca di una araba fenice che non volerà più, il “popolo della sinistra”. Questo mitico popolo è allo sbando. Depresso e sfiduciato dall’esito del referendum ha poi subito i colpi di una scissione incomprensibile e di un ancor più incomprensibile arroccamento di Renzi nella sua posizione di segretario, come nulla fosse successo. Veramente impressionate che nessuno del mondo renziano, fuori e dentro il Pd, abbia fornito uno straccio di riflessione su quel 60% di voti contrari: derubricato come un incidente di percorso, una incomprensione della “grande riforma” (ancora una volta), una cattiva comunicazione, o una questione sentimentale di amore e odio come fossimo ai Baci Perugina. Eppure, fuori da quel mondo autoreferenziale risuonavano alcune ipotesi interpretative, dall’affezione per la costituzione, unico elemento identificativo di una comunità nazionale frastagliata, una sorta di “patriottismo costituzionale”, alla insoddisfazione trapunta di vera e propria rabbia per i lunghi anni di crisi imputati a chi li ha gestiti ma non creati (cioè al centro-sinistra invece che ai governi berlusconiani), all’isolamento politico nel quale si è venuto a trovare (meglio: si è andato a cacciare) il partito. Quel popolo di sinistra non sta trasmigrando – ancora – verso altri lidi, ed è illusorio che le micro sigle sorte o risorte in questi ultimi mesi possano rivitalizzarlo. Forse, e sottolineo forse, solo una “lista Pisapia” tutta incentrata sull’ex sindaco di Milano, senza altri orpelli né dentro né fuori, può rimobilitare porzioni di quel popolo. Altrimenti è destinato all’astensione – come accadde clamorosamente alle elezioni regionali nell’Emilia rossa, tre anni fa, quando andò a votare il 37%! Il declino degli iscritti, lo spopolamento delle, e alle, feste dell’Unità, le difficoltà organizzative evidenziano plasticamente l’affaticamento del Pd, incapace di riprendere il bandolo di politica aggregante e mobilitante. Le prospettive della sinistra sono cupe. Il Pd rimane arroccato in una leadership che porta in sé le stigmate della sconfitta, all’opposto di quando un tempo esibiva i gonfaloni della vittoria, e vive una indeterminatezza politica-strategica logorante: continuare una cavalcata solitaria rischiando un lungo isolamento o individuare un alleato sicuro per i prossimi anni? In più, soffre di un disorientamento ideale, dalla questione migranti alle politiche del lavoro, per citarne solo due: punta ad una politica di accoglienza ed inclusione, e alla difesa dalle condizioni di sfruttamento neo-manchesteriano dei lavoratori? Poi, alla sua sinistra ribolle ancora un magma composito in attesa di una futura, problematica, solidificazione, non si sa quanto appetibile fuori da circoli nostalgici. Di fronte a questo campo di rovine la destra rialza la testa grazie alla memoria ultracorta degli italiani che hanno dimenticato i guasti epocali prodotti dai suoi governi, e i 5Stelle mantengono vivo e vegeto il loro serbatoio di arrabbiati e sfiduciati. Il Pd, e la sinistra nel suo complesso, non sono più il perno della politica italiana.
Sono diventati co-protagonisti, al pari del M5S, ma un gradino sotto la destra, che andrà unita perché gli elettorati di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia sono sovrapponibili, hanno valutazioni politiche molto simili.
Paradossalmente, solo lo stentatissimo risultato del Pd bersaniano nel 2013 permise al Pd, per la prima volta, di guidare il governo e poi, dopo la scissione alfaniana, di “dominarlo”. Alle prossime elezioni il partito di Renzi rischia di non ripetere nemmeno quel risultato; e certamente non sarà più nelle condizioni di dirigere quasi monopolisticamante il governo come negli ultimi tempi. Al massimo potrà entrare in una coalizione. Già, ma con chi?
La Repubblica
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