«Contrattacco», «rivoluzione», «controrivoluzione»: cambiano le parole ma non la cosa, ovvero la spinta culturale conservatrice che, in molti paesi, mira a contrastare l’avanzamento di diritti e spazi di rappresentazione per gruppi politicamente minoritari come le donne e le minoranze sessuali e razziali.

Mentre nelle cosiddette “democrature”, in Russia o in Turchia, la tendenza autoritaria dei regimi si sostanzia in leggi apertamente repressive, in democrazie avanzate come gli Stati Uniti e il Regno Unito ciò che è in corso da anni sono le cosiddette «guerre culturali» tra conservatori e progressisti in riferimento a dispute che investono la storia, la letteratura, la memoria comune, le identità, il linguaggio.

Non è difficile osservare il riflesso di queste dinamiche in Italia, dove le notizie di «cancellazioni», «attacchi alla libertà» e «barbarie» in corso altrove sono riprese e ingigantite dai giornali, mentre ogni ipotesi di innovazione nella cultura, nell’educazione o nel diritto a livello nazionale provoca un’alzata di scudi invincibile.

L’affossamento del ddl Zan contro l’omotransfobia tra applausi scomposti in Senato è difficile da dimenticare, ma è solo l’ultima di una serie di azioni portate a termine con successo da una destra che, sebbene minoritaria nel campo della produzione culturale, esercita un’egemonia di fatto in materia di diritti civili.

L’aspetto più caratteristico (per quanto non esclusivo) della nostra scena nazionale è però un altro: la strategia del contrattacco ha successo non tanto perché unisce la destra quanto perché divide la sinistra.

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Se l’opinione pubblica conservatrice riesce ad avere la meglio su questioni come l’identità di genere o la memoria coloniale, il linguaggio inclusivo o i programmi scolastici, è perché gli argomenti avversi al cambiamento si elaborano e consolidano anche in una parte del mondo progressista.

Si pensi alla frattura che il ddl sull’omotransfobia ha provocato nell’opinione pubblica di sinistra, tra i difensori della causa Lgbt, e gli osservatori preoccupati della «confusione antropologica» provocata dal riconoscimento dell’identità di genere come dimensione della personalità separata dal sesso biologico.

Una dinamica conflittuale simile era stata innescata, nel 2015, dalla proposta di legge sulle unioni civili: la contrarietà di una parte dell’intellighenzia progressista al riconoscimento dei genitori sociali in figli di coppie dello stesso sesso portò allo stralcio dell’articolo relativo dal testo finale.

E ancora: esponenti della sinistra firmano appelli contro la «follia» della cancel culture, o difendono la grandezza di uomini celebri contro le accuse legate a un passato inquietante o turpe – per esempio, nella polemica sulla statua di Indro Montanelli, la cui storia di abuso coloniale verso la “sposa” dodicenne etiope Destà non solo è nota, ma è stata rivendicata dal giornalista ancora in tarda età.

L’ultimo episodio è la petizione di un gruppo di accademici e accademiche, che ha raccolto migliaia di adesioni, contro l’uso dello “schwa”, ossia la “e” rovesciata, promosso da movimenti femministi ed Lgbt con fini di inclusione linguistica delle differenze.

Anche in questo caso, si paventa una «pericolosa deriva», si parla «dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto», e di «regole inaccettabili», oltre che dannose. «Pro lingua nostra», recita il titolo dell’appello.

Si tratta di iniziative destinate non solo ad agitare conflitti a sinistra, ma anche a suscitare il plauso della destra. Che infatti saluta con soddisfazione ogni nuovo caso di intellettuale conquistato alla sua causa. Il problema di simili iniziative, però, non è questo. Non è l’uso strumentale – che pure è piuttosto prevedibile – che gli avversari politici faranno di esse.

GLI ERRORI DEI PROGRESSISTI

Il problema è che l’attacco alla cultura dei movimenti sociali, che passa attraverso la ridicolizzazione delle battaglie sul linguaggio, sulla memoria, sulle rappresentazioni, è una precisa strategia politica della destra. E una strategia che si basa su due espedienti ben rodati: l’esagerazione del potere delle minoranze e degli attivisti, del pericolo che rappresentano per la conservazione della cultura, dei valori, della civiltà; e la conseguente retorica dell’assedio, del trovarsi “sotto attacco”, dell’essere “vittime” di forze ostili, che fomenta la polarizzazione alimentando un immaginario guerresco.

E gli intellettuali progressisti che intervengono con appelli o petizioni sullo stesso terreno adottano, insieme alla causa, anche l’inquadramento della materia nei termini dettati dalla destra conservatrice. È questo, non la dialettica delle opinioni, a fare della sinistra ostile alle nuove battaglie culturali un alleato di fatto (per quanto, si presume, involontario) del contrattacco.

In altri paesi, come gli Stati Uniti, la rinascita del “conservatorismo di sinistra” segnala la volontà di difendere politiche di intervento pubblico nell’economia, osteggiando la “svolta culturale” nell’agenda liberal. Ma non sembra questo ciò che sta accadendo in Italia.

La sinistra conservatrice gioca, come la destra, sul terreno dello scontro culturale. Così, adottandone il linguaggio, ne conferma l’egemonia.