Il bravo ragazzo

Gianmarco Tamberi rivoluziona l’immaginario dello sport. Un grande atleta può essere buono, un autentico cavaliere medioevale

Avvicinati al muro di casa, in sala; prendi matita, metro; segna: 2 e 37. Duemetrietrentasettecentimetri. Per intenderci: il canestro, a basket, sta a 3 metri e 05. Enormità. Il braccio dell’altista, nel salto, pare afferrare l’angelo per i capelli, decapitare gli esteti celesti, tirare giù tutto il Colosseo dei santi, ridurre l’Urbe dei devoti in macello. Il salto in alto rompe tutte le norme: l’altezza è la cuspide di un dio, il balzo si effettua guardando il cielo ed è importante, come sempre, la caduta. Risolvere tutto in un salto: che beata armonia! L’asta che segna l’altezza è incandescente, come il cerchio di fuoco, come la lingua di un drago; lo spazio vuoto che la separa da terra ha odore di cemento. Come nella paziente arte divinatoria dell’I-Ching, nel salto in alto il vuoto è ovunque: l’asta e il saltatore compongono, in aria, un ideogramma che sviscera destini.

Il primo campione di salto in alto, naturalmente, fu statunitense. Di discendenza irish, Michael Sweeney fu arruolato alle Olimpiadi di Parigi del 1900: fece di tutto – 100 metri, salto in alto e in lungo – senza eccellere in nulla. Nel 1895 aveva inventato la tecnica “a forbice” saltando 1,97 metri, un record. Un altro americano, Cornelius Johnson, molti anni dopo, a Berlino 36, supera i 2 metri; Dick Fosbury – ennesimo americano – è il Copernico del salto in alto. Impose lo stile – dorsale – che si adotta ancora oggi: a Città del Messico, nel ’68, vinse l’oro con 2,24 metri. Disciplina tecnica che sfiora il paradosso, il salto in alto è refrattario al record, alla bulimia del numero: la misura con cui Gianmarco Tamberi ha vinto l’oro a Tokyo è stata saltata da Zhu Janhua a Pechino, nel 1983, un millennio atletico fa; il salto di Javier Sotomayor a Salamanca resiste ancora, dal 27 luglio 1993, quasi immortale, 2,45 metri. Nel salto in alto non c’è progressione – per intenderci: nel 1987 Carl Lewis correva i 100 in 9 e 93, record dell’epoca – perché, appunto, l’assoluto non ammette statistiche. Nel salto in alto è l’uomo a commuovere, il numero ne è il residuo, non il risultato.

Incorporare a un evento sportivo un concetto morale è incongruo, inutile, un azzardo grigio. Nello sport conta vincere e, purché non ci sia frode, tutto è lecito. Lo sport non ammette patti: il primo è il più forte e domina sugli altri, sconfitti, tutti. Lo sport – per fortuna – si celebra nella classifica, ha il suo apice nel podio, piramidale: chi vince è re. La bontà, il bene, sono banditi dalla gara sportiva, sostituiti, semmai, da una vaga ‘correttezza’ olimpica. Gianmarco Tamberi – lo scriviamo percorrendo il rischio dell’ingenuità, di farci ridere dietro, evviva – è un buono. Si presenta come un buono. Ha subito il crollo che provano i buoni.

La gara olimpica di Tamberi è all’insegna dell’incongruo, insegna il prodigio. Mutaz Essa Barshim ha saltato con facilità impressionante, letale come uno scorpione, effimero come la falena. Facile profetizzare l’oro; la vera asta, il limite, per atleti simili, è nella mente. Per Gianmarco Tamberi ogni salto è stato un Everest; il modo con cui inarca la schiena ha la virtù del cobra. Tamberi è un corpo d’acciaio che ogni volta può sciogliersi in un nugolo di lacrime. La bontà è determinata, è feroce, è fragile. Lo spasmo finale ci è noto, l’estasi pure; il gesso in pista come il ramo d’oro, lo scudo dell’eroe, la traduzione del dolore più forte – anno 2016, quello della prestazione prepotente, 2,39, e della caviglia che implode – nell’impresa più grande. Condividere una medaglia d’oro è un’eresia: ne resterà soltanto uno. Invece. Gianmarco Tamberi, dottore in dottrina morale, scombina i ruoli: condividere un primato è come spezzare il pane.

Gianmarco Tamberi è un bravo ragazzo. Sembra uscito dal mondo antico, australe all’oggi, dove ha voce chi urla, chi ha l’etica tatuata su bicipiti innaturali. Tamberi è un buono. Vince la ferocia mediatica dei calciatori strapagati, la vanità dei celebrati, la schifosa boria dei forti coi deboli, quelli che ripetono a macchinetta, mere macchiette, ai microfoni, ciò che la società sportiva impone. Tamberi affila il corpo come il verbo: quando dice “questa è la mia Olimpiade”, lo dice dall’alcova di una rivelazione, spiritato e profeta, che centimetra ogni emozione, carisma del bene. Poi si fa il segno della croce. Come un cavaliere medioevale, come un eroe caro ai Preraffaelliti, Tamberi chiede alla sua ragazza, prima della gara olimpica, di sposarlo (“Volevo dimostrarti che tu sei in assoluto la cosa più importante della mia vita, molto più importante di qualsiasi mio sogno o obiettivo…”), affronta la sfida con determinazione iliadica, ricco della promessa: “Vincerò amore mio, presto vincerò e ti renderò orgogliosa di me come mai prima d’ora”. Cosa c’è di più sacro di questo? L’uomo che si dona alla sua donna, che vince per lei, per lei muore.

Il buono non è il buonista, lega vile, bestemmia del bene. La bontà non cede, azzanna; la bontà si rialza; la bontà ha una costanza extramondana, che va al di là della norma, della consuetudine al sopruso, della quotidiana invidia, del livore perpetuo. Il buono – censito dallo scherno, semmai, che lo invoglia al meglio – vince, alla lunga, con un salto, sugli avvoltoi del rancore, i frustrati che giustificano la propria inettitudine nell’alloro della crudeltà. Il buono scombina i piani: di solito gli si preferisce il villain, il crudele telegenico, il cattivo rampante, fa più figo, oppure il recordman (o la recordwoman) prono ai messaggi socialmente utili, benefattore, moralmente integro. Il buono è figlio del tempo antico, è il duellante, il martire, esteta in armi, che vince invocando il fato; sa rinunciare e sa incedere, fino alla fine.

Il resto, lo sappiamo tutti, da sempre. Ci hanno insegnato che vincono i furbi, che nel mondo di serpi bisogna essere scaltri. Sappiamo che tutto è ulcerato dalla corruzione, che tutto fa schifo, che l’uomo è bastardo per natura. Sappiamo che non bisogna fidarsi di nulla, che le belle favole sono balle, che la vita è fumo, vanità delle vanità. Sappiamo che siamo tutti peccatori, che il male è il criterio che regge il cosmo, che il potente schiaccia l’inerme, che i giorni sono grandinate di merda. Non ce ne frega nulla di queste ovvietà. Per un istante, crediamo al bravo ragazzo che vince, al bene che trionfa, al buono che tramuta il lutto in gioia eterna. Crediamo nella fiaba. Nell’impresa di Tamberi, irripetibile, c’è una violenta purezza.