Il Borgianni ritrovato

Maestro della rissa e del chiaroscuro. Insofferente alle regole e alle autorità E oggi nome dimenticato dai più. Una mostra monografica rende giustizia al pittore del Seicento attivo negli stessi anni di un altro ” maledetto”: Caravaggio
di Antonio Pinelli
Scattata il giorno stesso della sua inaugurazione, la quarantena inflitta alla prima mostra monografica mai dedicata a Orazio Borgianni è senz’altro l’affronto minore subito da questo “genio inquieto”, che il giovane Roberto Longhi, nel 1916, non esitò a dichiarare «suo prediletto». Basti pensare che tutto ciò che ci rimane dopo il furto perpetrato nel 1976 del suo capolavoro più visionario, la tela, datata 1608, di Sezze Romano con La Vergine che consegna il Bambino a San Francesco, è un frammento corrispondente a un quarto della superficie. Un relitto che grida ancora vendetta, con cui si apre con un’inevitabile nota malinconica questa rassegna riparatrice.
Ma il torto più sanguinoso Orazio lo subì in vita da Gaspare Celio, un pittore che lo diffamò con false accuse, riuscendo a ottenere in sua vece quell’ambitissimo cavalierato che era stato promesso al collega da un dignitario spagnolo. Uno scippo fraudolento che non sarebbe rimasto impunito, se il morbo di cui si colgono i segni negli ultimi autoritratti non avesse fatto precipitare Orazio in una nera depressione, per cui – scrive Baglione nella biografia del pittore – « divenutone tisico, a poco a poco si andò consumando insino alla morte».
Come Caravaggio, Borgianni era considerato un «huomo libero», nel senso di individuo con un’alta coscienza del proprio valore e insofferente nei confronti delle convenzioni sociali e delle autorità costituite. Era uno sperimentatore indefesso, com’egli stesso proclama in uno strepitoso autoritratto saturnino, che ce lo mostra nel pieno vigore degli anni, lanciarci uno sguardo in tralice tenendo il mento con una mano, nella posa canonica della Melancholia, mentre in primo piano, sul cavalletto, compare il sofisticato motto latino che è un vero e proprio manifesto di poetica: « Quo magis rimor, magis miror » («Più indago, più sono curioso di sapere»).
Artista anomalo e incompreso anche in vita, Borgianni continua ancor oggi a suscitare dibattiti infuocati, perché la sua opera non è incasellabile nelle consuete categorie. In bilico tra nostalgia della Maniera e profezia del Barocco più sfrenato, anche la sua appartenenza al “partito” di Caravaggio appare più legata alle contrapposte fazioni che si contendevano il potere nell’Accademia di San Luca, che a un’adesione convinta. Eppure, se lo si guarda senza lenti deformanti, ammirando l’audacia e la qualità vertiginosa del suo naturalismo, ma anche il gusto marinista di strabiliare forzando pose ed espressioni, con il rischio di eccedere e andare sopra le righe, se ne coglie la piena appartenenza al suo tempo. Non fu un genio precoce. Nato a Roma nel 1574, da un falegname di origine fiorentina, la sua prima opera nota, un San Gregorio, datato 1593, per una chiesa di Taormina, è maldestra in modo imbarazzante. Nel marzo 1597 è a Roma, dove fa pace con un uomo con cui ha avuto una rissa. Tra la fine del ’97 e l’inizio del ’ 98, parte per la Spagna, restandovi fino al suo ritorno a Roma, dove lo troviamo, nel giugno 1606, partecipare a un’ennesima rissa.
Nel corso del lungo periodo in Spagna, dove si muove tra Pamplona, Saragozza, Valladolid, Toledo e Madrid ( è tra i firmatari dell’atto di nascita dell’Accademia madrilena), Orazio ottiene credito e buona fama, assorbendo stimoli dai pittori del luogo – Eugenio Caxés, El Greco e Luis Tristán – ma mostrando anche una densità di impasti cromatici, maculati dalla luce e dall’ombra, e un intreccio tra neocorreggismo e parmigianinismo che inducono a ipotizzare, nel vuoto di documentazione tra il 1593 e il marzo 1597, un suo soggiorno emiliano tra Parma, Modena, Reggio e Ferrara (echi di Lelio Orsi, Nicolò dell’Abate, Ludovico Carracci, Scarsellino) e forse anche a Venezia (soprattutto Jacopo Bassano, Tintoretto, e – perché no? – anche Pordenone).
Incastonata nelle sale delle raccolte seicentesche di Palazzo Barberini, la mostra (fino al 30 ottobre, catalogo Skira) si concentra sulla stagione romana di Orazio, con 18 sue tele che si scalano nel decennio 1606-gennaio 1616 (quando Borgianni, assistito dai suoi grandi protettori spagnoli, l’ambasciatore Francisco de Castro e il suo segretario Juan de Lezcano, si spegne a 41 anni), alternate ad altrettante di Saraceni, Lanfranco, Bassetti, Bononi, Cagnacci, Tanzio, Simon Vouet, Claude Vignon, Giovanni Francesco Guerrieri, Giovanni Serodine, scelte con oculata sagacia dal curatore Gianni Papi, per dimostrare l’influenza che Orazio esercitò su due generazioni di pittori, che riconobbero in lui un precursore.
Una conclusione, questa, tutt’altro che scontata, ma che ritengo pienamente condivisibile, e di cui va dato a Papi il merito. Così come va riconosciuto a Yuri Primarosa, che lo ha affiancato in catalogo con un denso saggio sulle relazioni e ambizioni di Orazio, di avere messo in luce le frequentazioni dell’Accademia degli Humoristi. Dove il pittore, che masticava il latino e amava impreziosire le sue tele con frammenti archeologici, entrò in contatto con letterati del calibro di Battista Guarini, autore acclamatissimo del Pastor Fido, di cui eseguì un ritratto che fu esposto al funerale nel 1608; Tommaso Melchiorri, da cui dovette derivare la commissione del capolavoro di Sezze, destinato originariamente a San Francesco a Ripa; l’erudito Francesco Gualdi, per la cui Wunderkammer ai Mercati Traianei dipinse in grisaille un perduto Polifemo, e, infine, Giovan Battista Marino, che lo elogia senza riserve nella Galeria, e alla cui poetica della “meraviglia” risale quel gusto borgianesco di comprimere in quadri di formato ridotto colossali San Cristofori, che sembrano scavalcarli e aggredire lo spettatore, irrompendo nel suo spazio.
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