di Teresa Ciabatti
«E poi c’eri tu. A cinque anni andavi all’asilo in autobus, sicura anche se forse un po’ taciturna. Eri una di quelle bambine con gli occhi sgranati, che guardano tutto. Avevi i capelli lunghi, ricci, e a volte tua sorella ti faceva le trecce, che una volta disfatte te li lasciavano gonfi e spumeggianti». Così scrive Carolyn Hays nel libro Una storia d’amore. Lettera a mia figlia transgender (Add editore). E quel tu, la bambina senza nome a cui si rivolge in realtà è maschio. Ultimogenito di quattro figli, due maschi, una femmina, poi lui. Lui che già a tre anni rivendica: sono una bambina; che corregge se si sente indicare come lui: lei — dice.
Certo, un bambino così piccolo con le idee tanto chiare disorienta, al punto che una delle maestre dell’asilo ridimensiona: «Mi sono capitati alunni che affermavano di essere dinosauri, quindi potrebbe trattarsi solo di una fase». Mentre l’esperta suggerisce: «Dite a vostro figlio che è un maschietto cui piacciono cose da femmina, e che non c’è niente di male in questo!». I genitori eseguono, il piccolo replica: «Io sono una femmina». E a ogni candelina spenta, non solo di compleanno — si moltiplicano le candele, ogni giorno una candela su cui soffiare — chiudendo gli occhi esprime un desiderio, sempre lo stesso: voglio essere una bambina.
Questo è il racconto dal punto di vista della madre: il suo apprendistato, e quello di marito, figli, nonni, vicini di casa, di fronte a un bambino che da subito sa chi è. Resoconto sofferto ma anche gioioso, lucidissimo, di un’esattezza scientifica (molti i riferimenti alla scienza, tutte le ricerche che fa la madre, la quantità di notizie che riesce a mettere insieme) dove tutto si complica quando avviene il confronto con il mondo fuori. Quel mondo che un giorno bussa alla porta nella persona di un investigatore del Dipartimento per l’Infanzia e le Famiglie, arrivato su segnalazione anonima. Qualcuno li ha denunciati perché mettono abiti femminili al figlio costringendolo a essere omosessuale — l’oggetto della denuncia. E siccome vivono in uno Stato conservatore del Sud, con giudici di estrema destra, padre e madre scoprono di poter perdere la custodia del bambino.
Qui ha inizio lo strazio, il dover raccogliere prove e testimonianze della serenità del figlio (tra cui i suoi disegni: quelli da principessa e da hostess che è poi il suo sogno: da grande diventare un’hostess di volo). Ce la fanno, vincono, eppure la paura non passa. La paura che un giorno qualcuno possa tornare a bussare alla porta. Ecco perciò la decisione di trasferirsi in una città più democratica dove nessuno li conosce, nessuno sa il sesso di nascita del figlio. E la scelta, in accordo con il preside della scuola, di fare decidere al bambino stesso come presentarsi: femmina. Si presenta come femmina, si veste da femmina, e solo a chi vuole dice di essere transgender, cosa che fa con la migliore amica («La natura ti ha creata femmina?», ti chiese lei. «No. Mi sono creata femmina io»). Questa storia non ha conclusione, né lieto fine — è la sua potenza. Inizia e finisce nell’infanzia del bambino. Davanti l’adolescenza, l’età adulta, tanti dubbi, insieme alle paure dei genitori: «Non so come preparare la nostra bambina al mondo, quando il mondo la incontrerà e avrà una reazione schizofrenica. Da qualcuno verrà vista come un segnale di speranza, di modernità, ma altrove sarà qualcosa di più simile a una condanna, se non a una violenza. Come la preparo a tutto questo?».
Romanzo, testimonianza, a tratti saggio, di certo testo illuminante poiché affronta una realtà in Italia poco discussa, quella dei bambini transgender. Che succede se un bambino dice di essere diverso dal sesso di nascita? Una storia d’amore ci racconta cosa dovremo affrontare a breve, cosa sarà il dibattito pubblico (i casi già esistono, ma ancora c’è pudore a renderli pubblici). E lo fa partendo da lontano: dalla non conoscenza l’autrice traccia un percorso di tentativi, errori, nozioni accumulate (la parte più commovente), un punto zero condiviso dalla maggioranza dei lettori, per arrivare a un livello di consapevolezza dopo il quale c’è il bivio: accoglienza o rifiuto. A questo stadio, non prima, subentra l’intenzione, l’omofobia. Qui, solo qui, è possibile schierarsi, giudicare.
Il romanzo ha il valore della conquista collettiva in quanto narratore e lettore procedono insieme attraverso la ridefinizione degli spazi, i territori, come li chiama l’autrice. Coinvolgendo, mettendo in discussione concetti come intimità, dignità, reputazione, autodeterminazione. Il primo territorio è quello del bambino. Poi dei genitori, di chi ama ma deve imparare a familiarizzare con il diverso. Fino ai territori più lontani che sono quelli ostili, non solo ambienti, spesso persone singole impreparate, goffe.
In questa uscita alla luce del sole, in questa seconda venuta al mondo del figlio, l’autrice delinea la gamma di sguardi e possibilità che sono la realtà fuori, senza attribuzione di colpe. Proprio allargando il discorso la storia non è più di quella differenza, ma di tutte, non è più personale, ma universale. «Quando faccio pressioni per i tuoi diritti, spero di preparare la strada per una famiglia che verrà dopo, perché so che siamo in debito con tutti coloro che hanno fatto pressioni prima di noi». Acuto, spiazzante, doloroso, bellissimo.
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