Realismo magico all’italiana

di Valeria Parrella
Al Palazzo Reale di Milano i dipinti degli anni Venti e Trenta che raccontano, con atmosfere tra il sogno e l’incubo, il Paese stretto ormai nella morsa della dittatura.
È milano sempre commovente osservare come, davanti alle tragedie dell’umanità, le correnti artistiche ne siano investite e cerchino strade nuove per sopravvivere: a loro modo facciano proprie quelle sciagure tentando di digerirle, o di scartarle, per affidarsi a una realtà più rassicurante. È in questa chiave che può essere visitata la mostra del Palazzo Reale di Milano ( a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli, prodotta dal Comune di Milano- Cultura, Palazzo Reale e 24 Ore Cultura-Gruppo 24 Ore fino al 27 febbraio) dedicata al Realismo magico il cui anno cruciale (come nota Valerio Terraroli nell’ottimo saggio che correda il catalogo) è il 1924, quando la Biennale ospita una intera sala dedicata all’opera di Felice Casorati, alfiere del movimento. Nel suo Meriggio ( 1923), i corpi di tre donne nude sono stesi al sole, con il pube glabro, tra panneggi e tende, essi stessi fatti di quella attenzione per lo spazio occupato di cui tanto si nutre il movimento, essi stessi a scandirla come tre ore differenti su una meridiana. Ugualmente nude stanno le donne in Concerto (1924) a leggere spartiti e suonar la chitarra, perché a queste muse pastose e classicheggianti gli artisti della corrente affidano la parte “magica”. Realismo magico è un ossimoro forse coniato da Massimo Bontempelli, certamente da lui cristallizzato a indicare che la magia sbuca d’improvviso dal terreno, dal tangibile. Che se ti occupi di osservare davvero il reale esso rivela ciò che di magico possiede. È lo stesso anno in cui in Germania, alla Kunsthalle di Mannheim, si mette in mostra la Neue Sachlichkeit, la nuova oggettività. Ma siccome l’Europa era molto più Europa di quanto le nazioni sapessero e i loro sciagurati governi volessero, anche in Germania Roh corre a spiegare che della stessa cosa in fondo si tratta, che la parola “ magico” non si oppone a realistico bensì a “mistico” perché «il mistero non si inserisce nel mondo rappresentato, ma si nasconde dietro di esso». Vogliono dire che bisogna stare a guardare la tela, finché emerge il magico. E accade nel Ritratto di Renato Gualino (Casorati, 1923-24) sia perché il fanciulletto ha l’aria trasognata, che va oltre la tela, oltre l’osservatore, sia perché dietro di lui, che è evidentemente, per la foggia dei capelli, una creatura degli anni Venti, confabulano due donne che potrebbero essere di questo secolo ma anche di un altro, e ricordano certe figure del Cinquecento. Ma soprattutto perché esiste un rapporto magico tra oggetti, costumi, caratteri e passioni: «i veri elementi non sono le cose » scrive ancora Bontempelli « ma i rapporti che tra esse nascono».
È il modo di stare intorno alla tavola nel Pomeriggio a Fiesole di Baccio Maria Bacci, che fa il pomeriggio: il cane fidente con il muso sulla coscia del padrone (chi ce lo ha detto che è il suo padrone?), la ragazza racchiusa nell’abito racchiusa nella finestra, di profilo, e il modo in cui l’altra, di spalle, nasconde una chitarra mentre viene suonata ( chi ce l’ha detto che viene suonata?).
Ma il 1924 è l’anno in cui viene ucciso Giacomo Matteotti. Zittita l’opposizione inizia la dittatura. Questo, i quadri del realismo magico, lo sanno. Lo sa il più grande dei suoi artisti, il più cattivo e dolente, cioè quello che non riesce a nascondere in quella materia pittorica che si diceva pastosa e piena, la tragedia che a essa, a lui, a tutti occorre. Cagnaccio di San Pietro, dell’abisso in cui sta precipitando l’Europa, se ne fa carico. Sono i nostri occhi che vogliono vederci questo? Forse no: Cagnaccio alla Biennale del 1928 propone una tela: è la celeberrima Dopo l’orgia in cui tutto è simbolismo, e le carte tre di cuori e tre di picche, e le donne riverse a terra, tre, e le tracce brutali dei maschi, assenti. È tutto talmente preciso e dettagliato. Ma su un gemello, attaccato a un polsino, vi è inciso un fascio littorio. È la deriva morale del regime. Un quadro tremendo, devastante. La tela ovviamente viene rifiutata. Qualche tempo dopo Cagnaccio rifiuta anche lui: la tessera del partito. E così deve fingersi più di una volta pazzo, per sopravvivere, si farà qualche giorno rinchiuso a San Servolo, il manicomio di Venezia, qualche altra volta si fa ricoverare nell’ospedale del Lido. Tutto, nelle tele di Cagnaccio di San Pietro, sa dell’abisso: anche i bambini. Sono figure deformi ( Liliana, 1926), senza infanzia, che reggono giochi in mano con cui non giocano ( Senza titolo, 1929), lasciati su pavimenti morbidi a crescere senza futuro, con gli occhi bucati, persi, visti da un osservatore adulto: capaci di indurre colpa. I tre bambini di Bambini che giocano del 1925 sono tre adulti smarriti che non giocano affatto: sono sgomenti, arresi, già depressi: tutti Cassandra della guerra che sarà. Le prime lire della donna usata, lasciate nel piattino, come una mangiatoia in Primo denaro del 1928 fanno lo stesso effetto. Il volto giovanissimo, dalla pelle intatta, sotto il rossore delle gote, nella stanchezza dopo l’amplesso prende una smorfia di disappunto che sovrasta pure il fatto di averla dipinta al contrario, lasciata, abbandonata lì. Cosa c’è da giocare? Cosa da godere? Resta l’equilibrio della tela, la pienezza del colore, la prepotenza del realismo. È sempre un errore proiettare il futuro nell’interpretazione: bisognerebbe, a esser critici davvero, inquadrare l’opera
guardando a destra e a manca, e nel passato, mica in avanti. Eppure qualche germe di quella protesta gettata nella tela la vide perfino Adolf Hitler, nel 1934 sempre alla Biennale, durante quel viaggio in Italia che gli servì da scusa per conoscere Mussolini. Vi era esposto un quadro di Cagnaccio straziante: Il randagio (1934). Il randagio è un mendicante composto e dignitoso, ragazzino, con gli abiti stracci e gli occhi celesti e, come in ogni sua figura, anche il mendicante rivolge un’accusa a chi lo guarda. Hitler si innamorò di quel quadro senza sapere nulla dell’autore. Andò in risonanza? Crediamo di sì perché chiese di comprarlo, gli fu rifiutato una prima volta, insisté, Cagnaccio vi acconsentì. Lo portò in Germania. Cagnaccio tornato a casa ne rifece una copia identica che oggi si trova al Mart di Rovereto. Il 1934 si considera uno dei momenti conclusivi per il Realismo magico, ed è anche l’anno in cui Hitler assunse il titolo di Fürher.
https://www.repubblica.it › robinson