L’ANALISI
Alle tormentate vicende dell’ala sinistra del nostro schieramento politico si può guardare con la distaccata sufficienza di chi non capisce impuntature e bizzarrie che sfiorano il folkloristico, o con la preoccupazione di chi, ragionando in termini di sistema, non gioisce per l’indebolirsi di una componente dialettica importante per l’equilibrio del nostro panorama politico. Sul primo versante si può trovare incomprensibile che i vari protagonisti non conoscano almeno la celebre battuta di Totò, per cui è la somma che fa il totale. Significa che né il Pd, né ciò che si muove nelle aree a questo limitrofe possono raggiungere da soli un peso determinante nel prossimo parlamento. Le componenti più garrule dell’estrema sinistra possono narrarsi la favola di una futura alleanza con un Pd derenzizzato senza tenere conto che questo sarebbe ridotto a una percentuale assai inferiore a quella attuale, sicché la somma delle loro forze non avrebbe gioco in un sistema che resta pesantemente tripolare. Così una certa dirigenza renziana può sostenere la tesi consolatoria di un Pd che da solo avrà la possibilità di detenere un pacchetto di azioni determinanti nel futuro assetto post elettorale, ma non riesce a convincere spiegando come raggiungerà quel risultato. Il fatto centrale di cui non si vuole tenere conto e che è quello che ha mosso Pisapia (e supponiamo il suo sfumato sponsor Prodi) è che nell’area “progressista” dell’opinione pubblica (usiamo per comodità questa definizione) c’è una certa fascia che vorrebbe promuovere la partecipazione ad un progetto di governo, ma che non trova appropriato farlo intruppandosi in quel partito che, Renzi o non Renzi, rimane l’ultima complicata macchina politica fatta di capi, capetti, tribù e correnti. Quest’area riconosce che senza un rapporto sostanziale con un partito strutturato come il Pd non si va da nessuna parte ma, magari anche per snobismo, vorrebbe avere una “casa” grazie a cui trattare da esterni con quella forza. Nulla di nuovo sotto il sole: è l’orizzonte sotto cui nacque l’Ulivo. Non a caso quella esperienza fallì non appena il partito che allora si chiamava Pds uscì dal suo complesso di inferiorità e pretese un ruolo privilegiato nell’alleanza. Il successivo tentativo di rianimare quell’esperienza, allargandone la partecipazione ad un maggior numero di forze politiche organizzate in partiti, si rivelò un fallimento anche peggiore: i professionisti della politica non sono fatti per promuovere “unioni”. Paradossalmente oggi la situazione sembra tornata alla casella iniziale. Pisapia e i suoi consiglieri intuiscono che l’area “progressista” potrebbe essere rianimata, perché strutturalmente in questo paese c’è una certa refrattarietà a farsi intrappolare nel gioco delle macchine politiche, ma non fanno i conti col fatto che debbono partire dal dialogo con una macchina politica come Mdp, che è per cultura e storia ereditaria del vecchio PdsDs. Sono professionisti che non hanno alcuna intenzione di accettare la formazione di un “campo”, cioè di un vago movimento di opinione dove possano accasarsi in molti e che non si vede come potrebbe essere governato a fronte di future inevitabili tensioni interne. Col massimo rispetto, per riuscire in un’operazione del genere ci vorrebbe una leadership fortemente carismatica, cioè indiscutibile e indiscussa, il che non sembra corrispondere alla fisionomia di Pisapia. Il risultato è che difficilmente riuscirà l’operazione di costruire una aggregazione che si basi su quei ceti che vogliono fare politica ma non dentro i partiti. Renzi pensa di scippare l’operazione assumendosi direttamente il compito di far spazio a quel tipo di classi dirigenti dentro le liste Pd, ma non coglie la sostanziale difficoltà dell’operazione per la ragione appena esposta. E così la ricostruzione di un’area progressista al momento resta al palo.
l Sole 24 Ore – Paolo Pombeni – 28/07/2017 pg. 10