Com’è già accaduto altre volte quando la lunga crisi italiana supera il livello di guardia, la telefonata dell’ambasciatore Usa Lewis Eisemberg a Luigi Di Maio è arrivata puntuale. Cos’altro doveva capitare in Italia per sollevare il timore giustificato del potente alleato Usa?
Giunta infatti solo poche settimane dopo l’esito deludente, per gli interlocutori di Washington, della visita di Salvini, l’esplosione del “caso Metropol” a Mosca, con il sospetto che la Lega cerchi finanziamenti opachi nella capitale russa, e la confusa seduta di mercoledì al Senato in cui il premier Conte non è stato in grado di dare spiegazioni chiare e ha sentito il bisogno di riconfermare la tradizionale collocazione atlantica dell’Italia, hanno convinto l’ambasciatore della necessità di un approfondimento.
Ma la scelta di Di Maio, non dello stesso presidente del Consiglio, né del leader del Carroccio, sta a significare che è dal capo politico pentastellato che l’amministrazione Usa si aspetta il chiarimento di una situazione percorsa ormai da troppe ambiguità. C’è perfino chi dice, nel Movimento, forse semplificando troppo, che Eisemberg avrebbe fatto capire a Di Maio che gli americani premono sui 5 stelle per la chiusura a scadenza ravvicinata dell’esperienza di governo giallo-verde, deludente da qualsiasi punto di vista e venata per la prima volta dopo molti anni di rischi di frettolosi cambi di collocazione internazionale dell’Italia, lontano dalle sue radici europee e occidentali che affondano in settant’anni di storia e di pace.
Seppure non è dato sapere con certezza se il colloquio sia stato effettivamente così esplicito, il senso sarebbe stato questo. E a Di Maio sarebbe toccato il compito ingrato di spiegare all’ambasciatore che la caduta del governo oggi sortirebbe un esito opposto a quello che si augurano gli Usa: elezioni anticipate, vittoria assoluta di Salvini, che forse perfino da solo avrebbe i numeri per costruirsi un governo personale e portare alle estreme conseguenze il programma che adesso i 5 stelle a malapena riescono a rallentare, contenere, diluire. Ostacolandone l’attuazione fin dove possibile, e assecondandola invece quando il Capitano minaccia la rottura, in un classico bilico italiano, di quelli che nel passato avevano già innervosito piuttosto spesso il potente alleato d’Oltreoceano.
In tempi recenti, era già avvenuto nel 2009, nella fase calante del berlusconismo e con il Cavaliere impegnato nel bunga-bunga: toccò a Gianni Letta sfoderare tutte le sue naturali doti diplomatiche per convincere l’allora ambasciatore David Thorne che il fatto che Berlusconi si addormentasse ai consigli dei ministri, come gli avevano raccontato, era dovuto solo a un temporaneo affaticamento, presto risolto dal vecchio Silvio, tornato in piena forma. Ma quando, nel 2011, la fine dell’era berlusconiana era apparsa naturale, lo stesso Thorne si era adoperato per favorire e accelerare la soluzione Monti, consumata, come si sa, in meno di un anno e mezzo, e sfociata, all’inizio del 2013, in una tornata elettorale assai incerta. Nella quale il senatore a vita, il premier eminentemente tecnico, era stato convinto da insistenze dello stesso tenore a scendere in campo personalmente con un suo partito. Una scelta per molti versi innaturale, per il professor Monti, che compiendola si giocò chanches molto forti di diventare il successore di Napolitano al Quirinale. A chi glielo fece notare, a quei tempi, Monti rispose di non essersi potuto esimere dal compierla, convinto da tre telefonate – due in tedesco e una in inglese, facilmente attribuibili alla cancelliera Merkel, a Papa Benedetto e a Obama – inequivocabilmente indirizzate in quel senso.
Adesso dunque tocca a Di Maio mostrarsi o no credibile rispetto alle preoccupazioni Usa. Ce la farà a rispondere alle attese il capo politico fiaccato dalla tremenda sconfitta alle Europee, che dal 26 maggio ha reso la sua navigazione assai incerta? Paradossalmente, l’indebolimento non è un gran problema per gli americani: dai tempi della Guerra Fredda sono abituati a scegliere chi ritengono affidabile – e a metterlo alla prova – indipendentemente dal fatto che sia il più forte attore in campo. In questo senso il colloquio di ieri, benché assai impegnativo, può trasformarsi in un’occasione di rilancio per il traballante leader grillino. Sol che dimostri di esserne all’altezza.