Dunque quello che il candidato premier Luigi Di Maio voleva liquidare come “un problema di contabilizzazione”, una questioncella da ragionieri, è in realtà la grana numero uno per il Movimento 5 Stelle: la scoperta dei furbetti dello scontrino. Non siamo più di fronte a un compagno di lotta contro affittopoli che paga solo 7 euro al mese per la sua casa comunale, o a un ammiraglio che s’era scordato di essere già stato eletto col Pd, o a un avvocato che aveva dimenticato di dichiarare l’iscrizione alla massoneria. Lo scandalo delle finte restituzioni dà una picconata robusta a un movimento che ha basato la sua popolarità, la sua immagine e la sua credibilità proprio sui soldi della politica, e sulla sua diversità rispetto a tutti gli altri: noi ci dimezziamo gli stipendi, loro no. Non sappiamo ancora quanto sia grande questo buco contabile che si allarga di ora in ora, come gli stessi vertici del Movimento hanno ammesso chiedendo le cifre vere al governo (perché quelle pubblicate sul loro sito si sono rivelate taroccate e inattendibili). Quello che sta venendo a galla rivela però un uso sistematico del trucco per aggirare la regola fondamentale del codice grillino, ovvero il taglio degli stipendi dei parlamentari. C’era un metodo collaudato e funzionante.
Il parlamentare ordinava online il bonifico della “restituzione”, stampava immediatamente l’ordine per pubblicarlo sul sito ma subito dopo lo revocava prima che diventasse esecutivo. E se è vero che supera il milione di euro la differenza tra ciò che i parlamentari pentastellati hanno dichiarato di aver tagliato ai loro stipendi e ciò che hanno effettivamente “restituito ai cittadini” – versandolo nel fondo ministeriale per il microcredito – non abbiamo a che fare, come sostiene Di Maio, con “qualche mela marcia”. Un milione diviso 1600 euro (la cifra media di ogni versamento) fa 625, ovvero 625 stipendi che sarebbero stati incassati per intero dai deputati e dai senatori grillini. Sottraendo i 97 mila euro dei due parlamentari rei confessi, Andrea Cecconi e Carlo Martelli, ci sono centinaia di migliaia di euro spariti nel nulla (e almeno una decina di probabili “furbetti dello scontrino”). Naturalmente ora tutti i pentastellati dicono di essere al di sopra di ogni sospetto e minacciano querele, ma del resto il 24 luglio scorso lo stesso Cecconi, allora capogruppo, accusava gli altri partiti di “avere deciso, come sempre, di non tagliare gli stipendi”. Ed era lui stesso, interpellato dalle “Iene”, a definire “un disonesto” chi dichiarava di aver restituito e invece non lo aveva fatto. Proprio come lui. Il panico del quartier generale pentastellato è comprensibile. Beppe Grillo aveva promesso che i suoi parlamentari avrebbero trattenuto solo 5000 euro lordi, invece degli 11.283 che incassavano gli ingordi della Casta. Tutti pensammo che avrebbero rinunciato a 6283 euro, invece poi si è scoperto che l'”eccedenza” da restituire era solo di 1600 euro, perché i rimborsi forfettari sono sempre stati incassati per intero (il solo Di Battista ne ha ricevuti per 7.193 euro, nell’ultimo mese rendicontato). Ma sommandoli tutti il totale era comunque notevole, e infatti i pentastellati l’hanno orgogliosamente stampato nei mega-assegni sbandierati nei loro “Restitution Day”, fino ad arrivare alla cifra che oggi Di Maio rivendica: 23 milioni. Loro restituivano, gli altri no.
Sgarrare alla regola numero uno era il crimine massimo, per i cinquestelle: e infatti era questa l’accusa che veniva rivolta a chi osava mettere in discussione i dogmatici editti di Grillo e Casaleggio, dal deputato Massimo Artini alla senatrice Serenella Fuksia, espulsi in poche ore con voto plebiscitario della Rete come traditori della rivoluzione solo per un ritardo nei versamenti. Ma quello che allora era un pretesto per sbarazzarsi dei dissidenti oggi è diventato assai più di un pasticcio imbarazzante, tra le mura virtuali del Movimento. Il monolite che Grillo ha lasciato in eredità a Di Maio ha una crepa che si allarga di ora in ora, perché si scopre che nel circolo dei puri c’erano degli impuri (due di sicuro, ma forse otto o dieci, forse addirittura di più: lo sapremo presto). Si scopre insomma che loro non sono poi così diversi dagli altri, quando sul tavolo c’è del denaro. E non basta dire, come fa il giovane candidato premier, che lui caccerà tutte le mele marce. Perché ormai le mele marce sono in corsa per il prossimo parlamento, sotto la bandiera a cinque stelle, e la loro è una corsa in discesa: Cecconi è candidato nel collegio uninominale di Pesaro (e capolista nelle Marche), mentre Martelli è capolista in Piemonte. Dunque saranno certamente eletti, il 4 marzo. Non possono essere revocati o cancellati dalle liste. Come l’inquilino da 7 euro. Come l’avvocato ex massone. Chi vota per Grillo vota per loro. Non possono neanche essere obbligati a dimettersi, come vorrebbe far credere Di Maio, perché non basta portarli davanti al notaio per rendere valido un impegno che va contro la Costituzione e resta comunque appeso al sì o al no delle Camere. Purtroppo per lui, i primi testimonial involontari di quello che doveva essere “il miglior gruppo parlamentare che l’Italia abbia mai avuto” sono proprio loro, i furbetti dello scontrino.