I diritti dello smart worker

È in corso Una gigantesca trasformazione del lavoro. La politica deve gestirla
MIGUEL GOTOR
Il Covid ha cambiato il nostro modo di lavorare con una rapidità sorprendente, senza che quasi ce ne accorgessimo. Le imprese private, come sempre accade nei momenti di crisi che sono anche imperdibili opportunità di ristrutturazione dei processi produttivi, hanno colto l’occasione al volo, come se attendessero un pretesto indiscutibile per modificare a loro vantaggio i rapporti tra capitale e lavoro. Le ultime classifiche degli uomini più ricchi del mondo riportano la notizia che Jeff Bezos ha ulteriormente allungato il suo vantaggio perché il “modello Amazon”, fondato sulla disintermediazione tra consumatore e produttore, ha trovato nel virus le condizioni ideali per prosperare a causa della distanza sociale imposta dall’emergenza.
Come sempre accade, quando si registrano rotture e salti tecnologici improvvisi e imprevedibili come la digitalizzazione applicata al mondo del lavoro, ci si divide tra apocalittici e integrati, senza considerare che le novità potranno avere un’evoluzione regressiva o progressiva a seconda di come e di quanto i nuovi processi che innescano saranno governati. Il nodo è delicato perché afferra ingenti interessi economico-produttivi che hanno la forza di condizionare lo stesso decisore politico. E il lavoro a distanza, come tutte le novità, si presenta sotto il segno dell’ambivalenza.
La tendenza alla progressiva affermazione dello smart working dipenderà soprattutto dai vantaggi economici che esso garantisce in termini di taglio di costi sia per la logistica sia per la produzione. Si pensi al risparmio per gli affitti degli spazi, per la manutenzione e l’usura delle macchine (il cui costo è trasferito al lavoratore), per la pulizia dei locali, per i buoni pasto, per la luce, per il telefono, per la formazione degli addetti, per le indennità di trasferta. È di questi giorni la notizia che a Londra soltanto il 20 per cento degli impiegati è tornato al luogo di lavoro e si è scoperto che nessuna delle maggiori 50 aziende britanniche ha predisposto un piano per riportare i dipendenti in ufficio con un radicale cambiamento del sistema economico cittadino.
Nella fase di convivenza con il virus sarà inevitabile l’affermazione di un modello ibrido, in cui il lavoro in presenza si alternerà con quello da casa con un vantaggio anche per il lavoratore che sarà indotto a ritenere, nell’immediato, che quella possa essere la condizione esistenziale migliore per lui, finalmente liberato dagli spostamenti nel traffico o con superaffollati mezzi pubblici, dai pranzi mordi-e-fuggi e dagli stressanti rapporti con i colleghi e con i superiori. In più, migliaia di riunioni aziendali che fino a pochi mesi fa si svolgevano in presenza con i relativi costi di viaggio e di pernottamento, da oggi si svolgeranno in modo virtuale. Insomma, nulla tornerà come prima, e quand’anche l’agognato vaccino sarà finalmente disponibile è facile scommettere che le nuove abitudini lavorative determinate dall’emergenza Covid resteranno in vigore.

Secondo i sociologi del lavoro più avvertiti questo nuovo modello di relazioni professionali basate sulla disintermediazione, sull’accorciamento della catena tra produttore e consumatore, sulla centralità della distribuzione rispetto alla produzione – il cosiddetto “modello Amazon” a cui si accennava – ha il problema che tende a distruggere più posti di lavoro di quanti riesca a crearne e, per di più, con una qualità dei diritti inferiore. Come ha scritto Domenico De Masi, nel futuro che ci aspetta un numero sempre maggiore di persone «sarà costretto a consumare senza produrre. Ne deriverà una riduzione dei consumi e un aumento dei conflitti sociali» che non avranno più le categorie e le appartenenze necessarie – quelle tradizionali, lo Stato, il partito, il sindacato, la Chiesa – per essere affrontati e gestiti.
Questa crescente disoccupazione tecnologica – oggi non licenziano più soltanto le aziende in crisi, ma anche quelle floride perché ritengono più utile il lavoro svolto da un robot – aumenterà la paura e la frustrazione dell’emarginato, la cui posizione sociale è ormai così atomizzata e disarticolata da non essere in grado di organizzare una reazione. Questa, infatti, è la parola chiave e anche il problema di ordine sociale che la formula magica “digitalizzazione” tende a nascondere: la progressiva e definitiva atomizzazione del valore lavoro. Le ineguaglianze crescono, ma ancora di più si radicalizzano i processi di disarticolazione sociale che le rendono invisibili e senza voce, un nodo che viene prima della questione dell’unità del mondo del lavoro.
La tendenza generale che stiamo vivendo è la progressiva frantumazione del lavoro con la diffusione dei “mini-jobs” e l’incentivo a trasformare il lavoro dipendente in tante partite Iva con una flessibilità al ribasso che assume la forma e la sostanza della precarizzazione e della stagionalizzazione della produzione e del lavoro on demand o “alla spina”. L’effetto di questo processo è che le società si frammentano e s’individualizzano sempre di più e le professioni che non possono essere automatizzate, come l’insegnamento o il lavoro di cura e di assistenza vedono ulteriormente decadere il loro valore nella scala sociale.
È facile prevedere che se non ci sarà un intervento regolativo del decisore politico si affermerà una tendenza alla privatizzazione estrema del rapporto di lavoro con il recupero di forme antiche di produzione, tipiche dell’antico regime, ossia del cosiddetto “domestic system”, in cui l’imprenditore passava casa per casa a ritirare i panni di lana lavorati dal contadino durante l’inverno, un contadino espropriato della proprietà dei mezzi di produzione, ossia il telaio che gli veniva affittato e ripagava mediante la sua fatica. Senza dimenticare che il luogo di lavoro tradizionale – un’aula, un ufficio, una corsia, una classe, un reparto, una catena di montaggio, un negozio – è anche uno spazio di solidarietà, di relazioni, di scambio, di compensazioni delle differenze tra l’efficienza e l’inefficienza, tra il forte e il debole, tra l’abile e il disabile. Il rischio, quindi, è quello di un aumento esponenziale del darwinismo sociale in formato casalingo e a distanza che tenderà a valorizzare solo le eccellenze produttivistiche e individualizzate, tagliando, con un colpo di clic quei soggetti non sufficientemente produttivi, ai quali prima è stato levato il tavolo e il computer aziendale, e poi, una volta spostato a casa, magari con il suo felice consenso, sarà levato il posto di lavoro perché non più utile, non più necessario, non più efficiente, non più funzionale.
Facciamo l’esempio della teledidattica che riguarda il mondo della scuola e dell’università, ossia milioni di lavoratori e di famiglie. Esso tende a riprodurre e a restaurare con forme e strumenti tecnologici nuovi una concezione antica – trasmissiva, autoritaria, nozionistica, ex video e non più ex cathedra – della trasmissione del sapere. Il problema non è soltanto quello, evidente ma risolvibile con nuovi investimenti che con il Recovery Fund ci saranno, del digital divide, ma della tendenza culturale a demotivare l’insegnante che può essere indotto a pensare che un power point ben fatto e un video scaricato all’impronta possano sostituirlo nella sua funzione docente.
I fautori di questa nuova teledidattica utilizzano un argomento “democraticista” all’apparenza forte che, non a caso, ha già fatto breccia nell’ideologia e nelle pratiche dell’insegnamento statunitensi: l’università in presenza sarebbe un privilegio per pochi mentre quella a distanza consentirebbe finalmente anche all’emarginato o allo studente lavoratore di conseguire una laurea che altrimenti mai avrebbe potuto ottenere. Ma attenzione, perché questo argomento usa la critica classista per affermare indirettamente una situazione ancora più classista: i figli dei ricchi, quelli che possono pagare rette sempre più salate, godranno dei vantaggi dell’insegnamento in presenza e della vita comunitaria dell’università, mentre le serie «b» e «c» della scala sociale faranno i loro corsi modello postalmarket o a punti, confinati nelle loro case.

Magari in un tempo incombente che non siamo in grado di prevedere sarà persino spezzata la relazione tra professore e luogo di lavoro perché ciascun docente sarà titolare di un determinato numero di corsi online che venderà al migliore offerente su scala nazionale o europea. Di conseguenza, sotto le apparenze di una grande modernizzazione in realtà si svolgerà una grande restaurazione, ossia un ritorno a un passato rimosso e dimenticato, alle condizioni dell’insegnante cinquecentesco che vendeva il suo sapere spostandosi di città in città, di corte in corte su scala continentale.
All’interno di questo nuovo quadro, che era già dentro di noi prima del Covid, ma che l’epidemia ha fatto emergere, è necessario elaborare da subito una carta dei nuovi diritti fondamentali del lavoratore nell’era digitale e nuove forme di contratto che la facciano propria. Mi riferisco al diritto allo sciopero, al tempo di disconnessione, alla garanzia e alla tutela del posto di lavoro nelle originali condizioni di smart working che si stanno affermando.
In questi mesi, sotto la pelle della novità e dell’emergenza, sono in tanti a temere che questi cambiamenti rivoluzioneranno il loro modo di lavorare (il come, il quando, il quanto e il dove) e quindi la possibilità di incidere sulle sorti della propria vita a prescindere dalle condizioni di nascita. Si tratta del ritorno di un’inquietudine antica che ha iniziato a circolare tra noi come un nuovo virus e spetta alla buona politica trovare il vaccino.

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