Non ha paura di niente, nulla s’attende, ha l’olimpica calma di chi vede un’Iliade scorrere sul vetro del tinello. Giampiero Neri, classe 1927, è forse l’ultimo templare della poesia italiana; sta di fatto che a lui della poesia, in sé, come paniere di canoni e repertorio di classifiche, come catastrofe critica, poco importa.D’altronde, ha esordito tardi alla poesia, cinquantenne, con L’aspetto occidentale del vestito, radicato in un crudo pudore, in una generosità austera, un po’ avulso dalla cagnara lirica. Continua a nascondersi, Giampiero Neri, a tracciare traiettorie epiche dalla provincia, a scovare l’oro tra i prati di città, nella tonsura delle periferie: sta all’ombra di un pseudonimo – di cognome fa Pontiggia, è fratello di Giuseppe, noto scrittore –, di una vita quasi anonima – ha lavorato in banca fino alla pensione – pur falciata dalla Storia – il padre, Ugo, podestà in un piccolo comune del comasco, è ucciso, dopo l’armistizio, da due partigiani. Neri è cresciuto tra letture disparate, avventuriere – da Tacito a Milarepa, da Agostino e Boris Pasternak a Lao-Tze – ha l’aria di un Diogene, di uno che seppellisce, per sbadataggine, scaglie di sapienza. Parla affilando i verbi col coltello. Alessandro Rivali, con pazienza, ha rivelato la remota grandezza di Neri in due libri, Un maestro in ombra (2013) e Ritorno ai classici (2020): infine, lo ha portato nella casa editrice per cui lavora, la Ares. L’ultimo libro di Neri, Piazza Libia (Ares, 2021), ha la schiettezza di uno schiaffo, giunge, pare, felicemente lunare, da un’infanzia fitta di tigri blu.Di fatto, è un manifesto lirico antimoderno: si cantano i controeroi, in esilio da questa era infetta, di animosità spuria e di atletismo dell’ego fine a se stesso; si celebra quel quadrato di pietra, Piazza Libia, appunto, quasi un rustico Eden, intoccato, nell’urbe milanese. L’Ettore di Piazza Libia si chiama Giovanni, come l’evangelista, “vive della benevolenza altrui… è quasi leggendario per il talento, l’eloquenza e anche la saggezza… non ha fissa dimora”, “d’abitudine è intento a giocare a sudoku”, fa di una panchina la propria Città di Dio, è amico di Attila, “un profugo dell’Est… un comunista ungherese” ed “è innamorato di una donna, una certa Maria, che vive nelle sue stesse condizioni di indigenza”. Neri, tuttavia, è omerico, non ha la piatta, pittata compassione dei puri di cuore; egli, dell’uomo, conosce il bagliore e l’urlo, la tenebra trafitta, e sa che il dolore può essere un sole. “La povertà l’aveva costretto alla scuola della non obbedienza, del niente vincoli. Perché nella società che vive del lavoro dipendente, tutti devono rispondere a qualcuno, nessuno è libero. Lui invece lo era, aveva imparato a essere l’amico di se stesso”, scrive di Giovanni, in una delle sue placche. Piazzale Libia – così secondo la toponomastica –, a Milano, verso Porta Romana, è un quadrato verde in cui è inscritto un cerchio, la forma rasenta la mistica, il significato è platonico. Forse Piazzale Libia è l’ultima riserva umana. Quando telefono a Giampiero Neri la sua voce è solida e senza eco: la pronuncia di un uomo, finalmente.

…dunque, questo Giovanni esiste davvero o è il parto di una finzione?

Certo che esiste: è nato a Milano, ma dev’essere di origine meridionale, forse siciliana. Ci vediamo tutti i giorni, tranne il martedì. Quel giorno, Giovanni si vede con il fratello: gli ha offerto un box dove dormire. Altrimenti, mi dice sempre, abiterei sugli alberi…

Perché una raccolta di prose poetiche su Piazzale Libia?

Perché appartengo anche io a quel mondo. Un mondo fatto di gente che non crede nelle umane sorti o in cose simili. Piazza Libia è un’oasi in una città che corre. Milano mi dà l’idea di un formicaio, che gira pazzamente intorno a piazza Libia.

Insomma, con quel nome esotico, fuori moda, che rimanda all’epoca coloniale italiana, piazzale Libia pare l’ultima fetta di mondo umano in un tempo disumano…

Diciamo che piazza Libia è un approdo, è uno scoglio: pur toccato dai flutti è risparmiato nella sua sostanziale identità di prato circondato da alberi. Inizialmente, la piazza era votata al gioco dei bambini, ma adesso i bambini non giocano più sui prati…

…che fine hanno fatto i bambini, cosa fanno?

Me lo chiedo anche io. Dove sono finiti i bambini? Restano a casa, credo, con i loro giochi. Spero che abbiano ancora i soldatini, che si figurino degli eroi.

Quali sono gli eroi, oggi?

Gli eroi di oggi sono i perdenti, come Giovanni. Eppure, Giovanni crede in quello che dice, tanto che misurandosi con i suoi pari è certo di saper scrivere meglio di loro. A volte mi fa leggere le lettere che scrive a Maria, la donna di cui è innamorato. Maria pare una matrona romana, vive con un sussidio, ha un figlio malato: è conosciuta, e senza bisogno che chieda, qualche persona gentile le dà sempre qualcosa.

Quali erano, invece, i suoi eroi, da bambino?

Sa, sono nato nell’epoca in cui l’uomo si avventava verso i Poli: i miei eroi erano gli esploratori, Amundsen, Umberto Nobile… E poi ero affascinato dall’Africa che leggevo nei romanzi.

Piazza Libia non è proprio una giungla…

No, certo. Piazza Libia è un placido ritrovo. Le persone prendono il giornale, la mattina, senza sapere cosa capiterà durante il giorno. Si comincia pensando bene: poi il giorno passa, sfiorisce, e tutto ricomincia.

Che senso ha, ancora, scrivere poesia?

Si scrivono così tante cose, per dare pubblicità, per seminare menzogna, per fare cronaca, che mi sembra giusto esista ancora la possibilità di scrivere soltanto per dire le cose più vere, per la verità.

Le piace Milano?

Mi piace l’architettura verticale di Milano, le nuove costruzioni. Non mi piace il “bosco verticale”, però: mi pare una menzogna, tutto sommato; il bosco lo preferisco orizzontale.

Il Covid ha alterato la sua vita?

Non troppo. Quanto a stare a casa… stavo a casa anche prima della pandemia. Eppure: le maschere, il numero continuamente diffuso dei morti, i telegiornali, che soltanto ora hanno un’aria un po’ meno funerea, hanno reso questo periodo molto duro. Anche la raffigurazione grafica del virus, una specie di mina galleggiante, mi pare odiosa.

Che cosa sta leggendo?

Contro i poeti di Witold Gombrowicz. Ha perfettamente ragione, perché mette alla berlina la prosopopea fasulla dei poeti. A volte i poeti eleggono ciò che non vale niente, si danno un tono, come se scrivessero la formula dell’infinito, ma non è così… Poi leggo i Vangeli.

Che cosa in particolare?

Giovanni, capitolo 4, l’episodio della Samaritana al pozzo di Giacobbe. Lo trovo rasserenante. La donna parla con Gesù e quando lui le chiede di chiamare il marito, risponde “non ho marito”. “In questo hai detto il vero”, dice Gesù, “perché hai avuto cinque mariti e ora quello che hai non è tuo marito”. In mezzo a tutte le chiacchiere, la verità era soltanto una: che quella donna ha avuto cinque mariti, e ora non ha marito. La poesia dovrebbe fare proprio questo: dire il vero. Nient’altro.