Generazione Navalny La protesta a Mosca

di Marco Imarisio

«Privet, eto Navalny». La protesta è diventata un sussurro che i ragazzi si passano con sorrisi complici da un tavolo all’altro. Piazza Pushkin è come fosse chiusa da una fila di blindati che comincia già sulla via Tverskaya e da decine di poliziotti in tenuta anti sommossa che si aggirano tra aiuole, fontane e uscita della metropolitana chiedendo «cosa ci fate qui?» a ogni gruppo che superi le due unità. Ai 1.800 arresti di giovedì in tutta la Russia, 700 solo qui, sono seguite le condanne immediate degli attivisti più noti, nella capitale e a San Pietroburgo.

Eppure, sono tornati. E lo faranno anche nel fine settimana, domenica sarebbe anche il settimo anniversario della morte del deputato liberale Boris Nemtsov, critico feroce di Vladimir Putin, assassinato poco distante da qui, sul ponte più vicino al Cremlino. Hanno scelto come punto di ritrovo il McDonald’s di fronte al parco. Il primo mai aperto in Russia. All’inaugurazione, 31 gennaio 1990, in piena Perestrojka, oltre trentamila moscoviti formarono un serpentone lungo cinque chilometri per mangiare il primo prodotto occidentale della loro vita, trasformando quel locale in un simbolo. Ma per loro è solo un porto franco, pago, mi siedo, sono un cliente e non un agente sovversivo. Ai tempi di Gorbaciov, loro non erano ancora nati. Sono tutti giovani, studenti dell’università. «Ogni tanto usciamo, e stiamo fermi, senza dire niente, senza fare nulla», spiega una laureanda in Lettere, che per ragioni evidenti acconsente a farsi chiamare Olga, un nome come un altro. «Loro ci vedono, e sanno chi siamo, e cosa pensiamo. Non è una cosa enorme, ma oggi è tutto quel che possiamo fare». Qualcuno ha provato a cambiare luogo, camminando fino all’ambasciata ucraina. È andata male. Un’altra sessantina di arresti.

Quando rientrano, si passano quelle poche parole, declinate in sigla, «Ciao sono Navalny», a rimarcare una comune appartenenza, il legame con l’attivista più temuto dal governo russo, che ancora pochi giorni fa dal tribunale dove viene processato ha cominciato così il suo breve messaggio. Alcuni aprono i giacconi per mostrare i coperchi in cartone delle scatole di scarpe trasformati in piccoli cartelloni, quelli che giovedì sera sono costati l’arresto ai loro compagni. Si intravede la scritta Net vojne, no alla guerra. Nello scarto tra la determinazione dei loro piccoli gesti e le conseguenze che potrebbero affrontare, arresto, maltrattamenti, in qualche caso la condanna, senz’altro una schedatura che negherebbe loro un futuro decente, c’è il senso della loro missione, dare voce a un dissenso che non può esprimersi in alcun modo. Due anni fa, quando ancora si poteva alzare la voce, li avevano chiamati «Generazione N», come Navalny, che hanno conosciuto e seguito via Instagram, del quale ogni tanto, nelle vie laterali, chiedono in coro la libertà, dopo aver fatto bene attenzione che non ci sia qualche divisa nei dintorni.

Gli adulti che passano accanto esibiscono indifferenza e qualche sguardo di rimprovero. «Non posso credere che la gente si beva questa propaganda sulla giustizia da riportare in Ucraina» dice sconsolato uno studente. «Come se ti dicessero che la cosa migliore per grattarti l’orecchio sinistro è avvolgerti la testa con il braccio destro». È la Russia di internet opposta a quella della televisione, generazioni diverse, mondi inconciliabili e sbilanciati, vince il secondo a mani basse. Non è un caso che ieri il governo abbia annunciato limitazioni all’uso di Facebook. Nick Clegg, l’ex leader lib-dem inglese diventato presidente per gli affari globali di Meta, la società di Mark Zuckerberg, ha spiegato le ragioni di questa decisione. «Ieri le autorità russe ci hanno ordinato di fermare il fact-checking indipendente sul contenuto postato su Facebook di quattro organizzazioni media controllate dallo Stato. Abbiamo rifiutato. Il risultato è stato l’annuncio della restrizione del servizio».

Da una parte, ragazzi che tra loro si salutano chiamandosi «bro», fratello in inglese, che sono cresciuti sentendosi cittadini del mondo. Dall’altra chi sogna il ritorno agli zar. Anche per questo, la metà dei giovani sotto i 25 anni sogna di andare via, e più scende l’età più sale la percentuale di quelli che vorrebbero emigrare, sotto i 21 anni sale fino al 60 per cento, secondo le poche società di sondaggi indipendenti. All’uscita del McDonald’s, uno studente di cinema fa sfoggio di erudizione consigliando agli amici di recuperare il vecchio documentario del grande regista Mikhail Romm sulla nascita del nazismo. «Mi sento offeso e impotente» aggiunge. Giovedì è sfuggito per un soffio all’arresto, inseguito da due poliziotti. Adesso è di nuovo qui. Sono gocce in un mare vasto, e sorvegliato in modo ossessivo. Ma anche questa è Russia.

 

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