Intanto, da un mese, in piazza ci sono soprattutto i ferrovieri delle Sncf, le ferrovie di Stato, disposti a lunghissimi giorni di sciopero pur di non ritrovarsi con una società aperta alla concorrenza e la fine del posto di lavoro a vita, una riforma di cui Parigi parla da vent’anni ma nessun presidente si è sentito di fare. “Si tratta di una battaglia simbolica perché testa la determinazione di Emmanuel Macron di andare fino in fondo con il suo programma di rottura pur avendo una buona parte della società contro”, riassume il politologo Dominique Moisi in una Parigi piovosa che si appresta a fare i conti con l’anniversario del primo anno di governo di En Marche.
Migranti. Welfare. Settore pubblico. Fisco. Economia. Pensioni. Formazione professionale. Istituzioni. Mese dopo mese, decreto dopo decreto, Macron sta realizzando ogni punto del suo programma elettorale. Una lunga marcia. Senza sosta. Senza eccezioni. Senza confronto con le parti sociali. Altro che “una riforma al mese” di eco renziana. “La sua è una strategia di movimento continuo”, dice Alice Rouilleaut, 40 anni e 5 figli, dottoressa di base con il pallino per la politica: “Non dà il tempo di capire un cambiamento che ne ha già fatto un altro. Ma è l’unico modo per non impantanarsi nell’immobilismo come al solito”. Lo riconoscono anche gli acerrimi nemici: “Certo è furbo”, concede nel suo ufficio a bordo strada di un vasto edificio accanto alla gare du Nord, Fabio Ambroso, scambista di origini friulane alla gare Saint Lazare e sindacalista di Sud, il sindacato che più assomiglia ai nostri Cobas: “Sta colpendo noi ferrovieri adesso, all’inizio del mandato, per poter magari correggere il tiro dopo, davanti a nuove elezioni”.
Dalla sua parte, a fare il tifo, l’Eliseo ha oggi il nocciolo duro della Francia produttiva. Secondo i sondaggi, il 53 per cento del Paese: i grandi capitali, gli imprenditori ma anche i liberi professionisti, tanti intellettuali e tutta quella borghesia che ha studiato e non vede l’ora di trasformare le proprie conoscenze in euro sonanti all’interno del nuovo mondo di cui parla Macron: “Paradossalmente ciò che mi rende ottimista è che la Storia torna ad essere tragica. L’Europa non sarà più protetta come lo è stata dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Questo vecchio continente di piccoli borghesi che si sente al riparo nel conforto materiale o entra in una nuova avventura o in una tragedia. Il nostro paesaggio familiare cambierà profondamente sotto l’effetto di fenomeni multipli, implacabili, radicali. C’è tanto da reinventare”.
Sono alcuni di loro che lo hanno sostenuto nella preparazione minuziosa della discesa in campo e poi durante la campagna elettorale, quella che ha distrutto il panorama politico tradizionale. Ma sono molti, di idee diametralmente opposte, quelli che si sono visti costretti a votarlo al secondo turno delle presidenziali: “Macron non la smette di dire che sta applicando il programma con cui ha vinto”, rivendica Christine Delseray, insegnante di scuola media nella banlieue parigina di Antony: “Ma noi non abbiamo votato per quel programma. Abbiamo solo votato contro quello di Marine Le Pen”. Sono gli intellettuali di sinistra, i lavoratori dipendenti, i professori, i pensionati, i giovani, i disoccupati che volevano una politica riformatrice sì rispetto al passato, ma che tenesse conto anche dei più deboli, dei meno preparati e motivati, di quelle tensioni sociali che hanno creato il fenomeno Fronte nazionale.
“Macron è salito al potere uccidendo una sinistra francese moribonda, e ora, al governo, sta facendo fuori anche la destra, sostituendosi a essa”, riassume Bruno Cautres, professore alla prestigiosa SciencePo di Parigi: “Un anno fa era a sinistra, sei mesi fa al centro, adesso ha virato a destra”. Chi votava repubblicano ma era disgustato dalla corruzione e dall’immobilismo del partito ha trovato in lui non solo un leader ma un traghettatore verso un mondo in cui la Francia sta tornando a contare e a dire la sua, proiettando all’esterno un’immagine di potenza, non al di fuori ma alla testa del Continente Europa. “France is back”.
“La Francia aveva bisogno di un presidente più credibile di Hollande, più degno di Sarkozy e più serio nella sua volontà di riforma di Chirac”, dice Moisi: “E finalmente c’è qualcuno che non solo parla inglese ma capisce anche la rivoluzione digitale”. “La rapina con scasso del secolo” hanno definito alcuni giornalisti la sua ascesa politica. Per ottenerla ha “ucciso” il padre, François Hollande, il presidente che nominandolo ministro dell’Economia gli aveva spalancato le porte del potere e che oggi l’ha pubblicamente definito “il presidente non dei ricchi ma dei più ricchi”.
“Un grande imbroglio”, tuona anche Edwy Plenel, baffo brizzolato e sorriso obliquo, il giornalista del momento, dopo due ore e mezza di intervista televisiva aggressiva e irriverente fatta al Presidente in prima serata. Un vero duello corpo a corpo. Nella sede di Mediapart, il giornale online che ha lanciato dieci anni fa e che oggi è diventato il simbolo della resistenza a Macron, spiega all’Espresso: “A distanza di un anno non ci sono più i modi suadenti e la sua volontà di equidistanza tra destra e sinistra. Ormai difende l’aristocrazia di Stato e sta liberalizzando l’economia senza liberalizzare la politica. Crede che la ricchezza generi fiducia, ciò di cui il Paese ha indubbiamente bisogno, ma si sbaglia. Si tratta di un’illusione economica. La Francia ha resistito alla crisi economica del 2008 grazie al suo statalismo”.
La riforma che forse meglio rappresenta questo presidente algido e determinato a sconquassare il Gattopardo francese è quella fiscale: ha azzerato le famigerate imposte sui grandi patrimoni immobiliari, lasciando, con promessa di revisione in autunno, quelle sugli immobili. Un regalo ai suoi amici banchieri, tuona l’opposizione. Una politica vecchia, anni Novanta, sottolineano gli esperti. Un modo per liberare capitali privati da investire nella riforma del settore industriale e far decollare il settore tecnologico, l’unico capace di generare i posti di lavoro di domani, sostiene lui, che ripete come gli ultra ricchi quelle tasse non le paghino comunque perché nella loro “ottimizzazione fiscale” – parole diventate liriche rap – la residenza l’hanno spostata in Belgio o in Olanda, Paesi da tempo nel mirino di Bruxelles per politiche scorrette a favore dei residenti stranieri. “E secondo voi perché mi sto battendo per l’unificazione fiscale europea?”, chiarisce lui.
Più ancora delle riforme a tamburo battente urtano sia lo stile dirigista e assoluto con cui tratta anche i suoi ministri, ormai meri esecutori, sia i modi abrasivi, al limite del disprezzo, con cui parla a chi sente anni luce distante per censo o per indole. “Macron dà più valore all’equità che all’uguaglianza”, dice Cautres: “Sta ponendo fine al mito che tutti possano avere le stesse competenze”. Agli studenti in rivolta contro la prevista selezione sui curriculum per l’entrata all’università Macron risponde: “Devono capire che non ci saranno esami al cioccolato nella Repubblica”. E al ferrotranviere che gli spiegava che lavora due week end al mese: “Ma io lavoro tutti i week end”. Agli oppositori che durante la sua trasferta americana lo hanno accusato di distruggere il sistema democratico: “Provate voi a farvi eleggere”. Durante l’inaugurazione della station F a Parigi, il più grande campus di startup al mondo: “In stazione si incontra ogni tipo di persone, quelle che hanno successo e quelle che non sono niente”.
Eppure, nonostante tutto, il giudizio della Francia su di lui è ancora sospeso. Nel primo anno di governo hanno brillato per assenza le riforme che avrebbero dovuto reinserire nel contesto produttivo il “Paese perduto”, quello che vota estrema destra o estrema sinistra e che urla di impotenza. “È troppo presto per dire se tutti beneficeranno delle sue politiche”, dice Emmanuel Rivière, fondatore della società di sondaggi politici Kantar: “Per il momento nulla è cambiato per i più deboli. Non è ancora partito il processo di riconciliazione tra francesi”.
Sul tavolo, per il suo secondo anno di mandato, Macron ha messo una profonda rivoluzione del sistema di formazione all’impiego e, soprattutto, l’ennesima, alcuni dicono quindicesima, riforma delle banlieue, dei ghetti urbani, il peccato originale su cui è stata costruita la Francia moderna. Prima di lui nessuno è riuscito a compierla. Servono soldi a palate, un fondo di almeno 5 miliardi di euro, quelli che sta cercando di recuperare un po’ ovunque. Brutalmente. Bisognerà vedere se finiranno tutti nel buco nero della rivoluzione tecnologica o se verranno dirottati anche per offrire ai suoi concittadini, se non “Égalité”, almeno una reale parità di chance. Al 2020 il giudizio finale.