Fotografie, abiti e ossa: così Cristina dà un nome ai migranti morti in mare

A prima vista doveva avere diciotto anni. Date un’occhiata alla cresta iliaca, disse una delle dottoresse. La cresta iliaca non era ancora fusa, e succede da adulti: il ragazzo era più giovane, forse sedici anni. Passarono alla dentizione. Estrassero facilmente il secondo e il terzo molare. Il terzo aveva la radice che cominciava appena a formarsi. Quattordici anni. Lo spogliarono. Piumino, gilè, camicia, jeans. Dentro il piumino sentirono qualcosa di più duro, quadrato. Lo scucirono. C’era Una pagella scritta in arabo e francese. Mathematiques, Sciences phisiques. Doveva essere la cosa più preziosa che possedeva per cucirla dentro il piumino. Era il suo lasciapassare per diventare grande in Europa.

Cristina Cattaneo è nata a Casale Monferrato, Alessandra. E’ ordinario di medicina legale all’Università degli studi di Milano    e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense. Di mestiere, uno dei tanti suoi mestieri, cerca di dare un nome ai morti che non l’hanno per la semplice ragione che tutta la saggezza del mondo è stata scritta alle origini dell’uomo, e tutta la saggezza sui morti è nel pianto di Priamo che chiede ad Achille il corpo del figlio Ettore per dargli sepoltura. Era già tutto scritto lì. Stiamo ricevendo numerose richiesta da eritrei e siriani, le aveva detto un giorno un collega della Corce Rossa. Perché aspettano l’arrivo dei parenti e non sanno più nulla, nemmeno se siano vivi o morti. Per anni la gente è morta attraversando il Mediterraneo ed è rimasta in fondo al mare oppure è sepolta sotto lapidi senza nome. Dal 2001 oltre trentamila morti. Nessuno ha mai pensato di fare con loro quello che si fa con noi: dargli un’identità e dare un a risposta a madri, figli, nonni, dirgli se tocca ancora attendere o ci si può mettere il cuore in pace. Vedete che Totò non aveva ragione, dice Cristina Cattaneo, qualche volta nemmeno la morte è una livella.

Le fotografie
Quando il gruppo fu costituito nel 2013, cominciarono ad arrivare da tutta Europa. Una donna guardò e foto del database: cercava il fratello che aveva sentito due ore prima che si imbarcasse in Libia; si bloccò, si concentrò su frammenti di carta con segnati numeri di telefono. E’ la sua grafia, disse, questo è il suo quattro e questo è il suo sette, e scoppiò a piangere. Un’altra donna arrivò con una busta con la ciocca di capelli di un’amica eritrea, che non aveva notizie del figlio e sperava che i capelli servissero per il Dna. Un uomo era sicuro che la sorella fosse annegata, ma se non ho un certificato di morte non posso adottare mio nipote, disse, è un bambino rimasto in Somalia. Perché fate tutto questo? Chiese a Cristiana un amico. Perché non buttare una corona di fiori in mare e chiusa lì? Se tu sospettassi che tua figlia era su un aereo caduto in mare, rispose Cristiana, butteresti una corona di fiori o cercheresti di sapere? Ah, bhè, se la metti così, disse l’amico.

Poi affondò il Barcone. Era il 18 aprile 2015, nel Mare di Sicilia. Sul Barcone, che poteva contenere 100 a dir tanto, morirono più o meno in mille. Per due mesi, in un capannone della Marina Militare a Melililli, Siracusa, Cristina e gli altri lavorano alla schedatura di 525 corpi. C’erano corpi interi, come quello del ragazzo che aveva circuito che aveva cucito all’interno della giacca un sacchetto con la terra del suo Paese, l’Eritrea. C’erano corani, rosari buddisti, una croce ortodossa. C’erano crani senza corpo e corpi senza cranio. C’erano decine di piccole ossa della mano rimaste sole in quell’ossario. C’era il dente minuscolo e tondo di un bambino di sei anni. C’erano tessere della biblioteca, foto di gruppi sorridenti, felpe del Real Madrid. C’era la stiva del Barcone in cui bisognò entrare una volta che rea stato recuperato e tirato a secco, ed era “un tappeto di sagome umane”, “si stendeva per tutta l’area della stiva, ampia all’incirca 60 metri quadri, quasi tutte a faccia in giù, qualcuna in posizione fetale, molto gonfie per via della putrefazione, rese più umane da capelli, guanti, maglioni e scarpe. I morti parlano meglio dei vivi, dice Cristina. […] Noi italiani siamo stati i primi a mettere su una squadra che facesse con i loro morti quello che si fa con i nostri […]

Mattia Feltri – La Stampa