Rispunta qua e là, sui giornali, nei festival o nelle aule universitarie, l’infinta discussione attorno al ruolo dell’intellettuale e alla crisi di questa figura nel mondo contemporaneo. Periodicamente rinvigorito da pubblicazioni e dichiarazioni su quanto la società letteraria si sia dissolta e gli scrittori non dispongano più di un popolo cui rivolgersi (Alberto Asor Rosa), su come la letteratura abbia smesso di pensare (Emanuele Trevi), sul perché questa vada svincolata da intenti pedagogici (Walter Siti) e sull’attitudine mafiosa dei circoli letterari e relativi premi (Massimiliano Parente), il dibattito sul ruolo dell’intellettuale assume spesso contorni apocalittici e tignosi oppure, al contrario, di imbelle rassegnazione. C’è poi una chiara tendenza a sovrapporre la figura dell’intellettuale a quella dello scrittore, cosa che rende la questione ancor più confusa. Pertanto, estranei a questo mondo e alle sue contraddizioni interne, possiamo provare se non a fornire una risposta definitiva almeno a fissare i confini di una discussione che sia intelligente e proficua. E capiremo come potranno essere gli intellettuali di domani, ma per farlo è necessario capire come sono stati fino a oggi.

Innanzitutto, chi è e cosa fa un intellettuale? Se per esso intendiamo chi fa uso dell’intelletto, poiché ha completato gli studi, esercita una professione, si informa, cerca di capire cosa gli accade intorno e ne discute, allora in Italia ci sarebbero alcuni milioni di intellettuali. Questa è la definizione che fornì tra gli altri Leonardo Sciascia, ma oggi una tale massa di intellettuali risulterebbe così grande, disarticolata e eterogenea da non condividere tratti comuni e sulla quale poco si potrebbe dire. Allora non resta che restringere il campo e fornire una definizione che chiamiamo istituzionale, in base alla quale è intellettuale chi è rivestito, in virtù di una caratura culturale riconosciuta, del ruolo di analista, esaminatore, critico e financo giudice della società e dei mutamenti che in essa occorrono. In questo senso, intellettuale sarebbe solo uno come Sciascia e non anche la platea dei suoi lettori.

In aggiunta, si può fornire una definizione strumentale: l’intellettuale deve produrre effetti. In altre parole, deve essere una figura pubblica in grado non solo di esprimere opinioni ma di fare opinione. L’intellettuale deve essere ascoltato, magari per essere denigrato, come accadde a Pier Paolo Pasolini, ma deve poter condizionare il dibattito: il pubblico attende la sua parola e questa provoca perturbazioni. Quando parla, deve succedere qualcosa; se non succede niente, non si tratta di un intellettuale. Per analogia, l’intellettuale somiglia al sovrano: non è sufficiente la sua mera esistenza; bisogna che sia legittimato e le sue leggi rispettate perché possa definirsi tale, altrimenti sarebbe una figura puramente formale. Allo stesso modo, all’intellettuale deve essere affidato questo ruolo e la sua produzione di opinioni deve essere assorbita. È proprio qui la differenza tra gli intellettuali di ieri e quelli di domani, nel rapporto col pubblico e nella produzione di effetti, ma vi torneremo in seguito.

Secondo queste definizioni l’intellettuale è per forza di cose d’intervento. Per la precisione, è uno studioso o ancor più uno scrittore d’intervento. E si capisce: lo scrittore, anche colui che più fugge dall’attualità, riproduce e trasfigura nelle proprie opere il mondo in cui vive, ed è proprio muovendo dalle contingenze che giunge all’assoluto. Ma non tutti gli scrittori sono intellettuali: l’intellettuale partecipa a una regata in uno specchio d’acqua amara; non può essere solitario. Esiste se esiste un dibattito in cui può inserirsi. Sommi autori solitari come Cioran, Ceronetti e Gómez-Dávila, erano custodi di cimiteri, estroflessi e figli del tempo, ma mai battitori d’asta. L’intellettuale invece è un animale da branco.

Stando così le cose, come pensiamo, la domanda sorge spontanea: chi oggi corrisponde a questa definizione d’intellettuale? Non è facile a dirsi, perché il mondo è cambiato e noi conserviamo, condizionati dalle letture e dall’insegnamento scolastico, l’immagine dell’intellettuale otto-novecentesco. Replicare l’esperienza di magnifiche figure come Zola, d’Annunzio, Malraux, Malaparte, Sartre, Pasolini e Sciascia è oggi impensabile. Non perché non esistano persone in grado di raggiungere tali vette, ma perché le possibilità di espressione pubblica sono mutate e ridotte. Gli intellettuali otto-novecenteschi erano tutti letterati tentacolari, autori di romanzi, saggi, articoli di giornale o anche di poesie, film e drammaturgie. Erano inoltre intellettuali partigiani, nel senso che si collocavano presso una parte dello schieramento politico, spesso contigui quando non organici ai partiti che la rappresentavano, e diversi vennero perfino eletti a cariche pubbliche. Sciascia poteva essere contemporaneamente scrittore e deputato, esprimersi su mafia e terrorismo, religione e famiglia, politica e letteratura, ed essere sempre puntuale, intelligente e ascoltato. Oggi chi si avventurasse per tanti campi del sapere e della vita pubblica perderebbe credibilità e sarebbe tacciato di opportunismo e “tuttologia”.

Dedicandoci qui all’analisi formale, senza dare giudizi di valore o peggio giudizi alla persona, non resta che fare alcuni esempi. Colui che in Italia più si adatta alla definizione istituzionale che abbiamo fornito è forse un Gianrico Carofiglio. Ex magistrato, ex deputato, romanziere e saggista nonché collaboratore di giornali e ospite in tv, dispone di tutto l’armamentario di un intellettuale d’intervento di stampo classico. Manca però della caratteristica strumentale: Carofiglio non fa opinione. È simile a centinaia di suoi “colleghi”, troppo educato, pacato e levigato. Le sue opinioni non costituiscono materia di discussione perché troppo aderenti al luogo comune dell’altruismo, della solidarietà e delle buone maniere.

All’estremo opposto si trovano autori come Michela Murgia: le sue opinioni provocano sì reazioni, spesso sguaiate, ma essendo ridondante (solo sessismo e fascismo) e mancando di capacità di analisi della società nel suo complesso, non la si può considerare un’intellettuale completa. Per quanto le sue opinioni siano originali, risultano di maniera, analoghe a quelle che all’estremo opposto può produrre un Vittorio Feltri, quindi depotenziate, tanto che ci si può riferire al murgismo o al feltrismo come a modi specifici di inserirsi a forza nel dibattito. Quella della Murgia è semmai una figura mediatica, incastonata nell’alveo di giornali e social network, dove acquisisce punteggio quanto più viene derisa da giornalisti e politici di destra.

Allora non resta che concludere che l’unico intellettuale italiano contemporaneo – per come lo abbiamo definito prima, si badi bene – è Roberto Saviano. Da un lato ha conquistato e gli è stato attribuito un ruolo pubblico, plasticamente esemplificato dalla scorta procuratagli dallo Stato, e dall’altro ogni sua opinione produce perturbazioni, per quanto affievolitesi nel tempo. Inoltre, è attivo su molti fronti – romanzi, articoli, serie tv e incontri pubblici – ed è capace di diversificarsi, spaziando tra politica, criminalità organizzata, droga e immigrazione. Caratteristiche che lo espongono ai problemi già evidenziati, cioè alle accuse di opportunismo e “tuttologia”. Certamente, porre Saviano sullo stesso piano di Malaparte o Sciascia è impresa ardua, ma, come già detto, non è questa la sede per giudizi di valore.

Si rimane però insoddisfatti. Non è possibile credere che l’unico intellettuale italiano contemporaneo sia Saviano. Questa insoddisfazione risiede proprio nella definizione di intellettuale, che non può che risultare desueta poiché la figura stessa dell’intellettuale nacque nella società europea dell’Ottocento, quando questa era divisa in classi, gli istruiti erano pochi e l’unico canale di comunicazione di massa era la carta stampata. Inoltre, grazie anche agli spasimi del Romanticismo, era ovvio all’epoca affidare questo ruolo ai poeti, fino all’elaborazione dell’idea di vate, cioè del poeta insufflato di doti profetiche, attribuita in Italia prima a Carducci e poi a d’Annunzio. Oggi sarebbe ridicolo non solo proporsi come vati, ma anche pensare di sconquassare la società con la parola incendiaria, cosa che era nell’ordine naturale di possibilità per Zola, d’Annunzio e Pasolini: oggi non si danno né J’Accuse, né proclama interventistici, né Io so, ed è normale che sia così, perché è radicalmente cambiato il rapporto tra intellettuali e pubblico. Solo Houellebecq ha un tocco quasi profetico, ma è l’eccezione che conferma la regola.

Oggi il dibattito culturale non si svolge più presso la piazza centrale, dove ormai si è dediti al traccheggio, ma per le vie laterali, e ognuno può scegliere in quale recarsi. In passato le istituzioni culturali avevano una natura centripeta. Autori promotori di istanze e canoni i più disparati venivano accolti da grandi editori e grandi giornali: lì si inscenava il dibattito pubblico. Ciò imponeva agli autori di leggersi e confrontarsi tra loro e al pubblico interessato di tenere il loro passo. Oggi invece le istituzioni culturali si sono moltiplicate e hanno assunto una natura centrifuga, fino a non identificarsi più con la cultura in senso stretto: quotidiani, settimanali e supplementi culturali non sono più tappa obbligata. Novità letterarie, saggi gustosi, articoli e interviste imperdibili vengono diffusi spesso da piccoli editori e siti internet, sfuggendo ai radar delle grandi istituzioni, che non recensiscono e non discutono se non ciò che si è imposto all’attenzione mediatica soprattutto per il successo commerciale.

Insomma, se è vero che gli intellettuali d’intervento otto-novecenteschi non esistono più – in Italia a eccezione di Saviano, per l’appunto – è altrettanto vero che esistono nuove forme di intellettuali. Queste prevedono una parcellizzazione tale per cui l’intellettuale non ha più di fronte a sé l’intera pubblica opinione (anch’essa liquefatta) ma solo una parte di essa, e su di essa ha più potere di chiunque altro in un contesto generalista. Per essere più chiari, si prenda ad esempio Alessandro Barbero: finché è stato solo autore di libri di storia era conosciuto da pochi; da quando le sue lezioni pubbliche sono state caricate su YouTube è diventato famoso, soprattutto tra i ragazzi. Ogni video che lo vede protagonista ha almeno centomila visualizzazioni: su queste persone Barbero ha un potere enorme, perché la soglia di attenzione in chi lo segue è altissima, molto più alta che nei media generalisti. Tant’è vero che la prima volta che Barbero ha espresso una netta opinione sull’attualità, come ha fatto riguardo alla certificazione verde, è successo un putiferio. Allora Barbero, senza neppure volerlo, è diventato un intellettuale.

Ecco che allora il dibattito è morto non per mancanza di dibattenti ma perché frammentato in nicchie molto prolifiche ma non comunicanti tra loro e non notate dal pubblico generalista per disattenzione dei grandi media. Anche per un lettore volenteroso è diventato impossibile frequentare tutte le fonti. Si capisce pertanto come questa sia la caratteristica fondamentale degli intellettuali di oggi: sono piccoli rispetto ai predecessori, non si rivolgono all’intero pubblico ma a una sua parte molto attenta e sulla quale hanno lo stesso potere di un intellettuale “totale” del passato.

In conclusione, il ruolo dell’intellettuale oggi è immutato. Sono invece cambiati molto i mezzi e le capacità che esso ha per condizionare il proprio pubblico. Non più il letterato scrittore e politicamente impegnato, come lo è stato per un secolo e mezzo, ma una figura sfuggente, non inserita in un apparato consolidato ma più somigliante a quello che si usava chiamare privater Denker, pensatore privato. Non già perché recluso nei propri confini domestici, ma perché sprovvisto della possibilità di ricoprire un ruolo riconosciuto dalla società nel suo intero e finanziariamente sostenuto. Quello dell’intellettuale si costituisce dunque come un dopolavoro, all’opposto del presenzialismo mediatico dove si chiacchiera su tutto ma tutte le opinioni scivolano nell’inconsistenza e nella dimenticanza. Oggi un intellettuale può agire poco e su pochi ma su questi farlo enormemente.