Fortini, la poesia-canzone.

«Caro, dove si andrà / – diciamo così – / a fare all’amore? / Non ho detto a passeggiare / e nemmeno a scambiarsi qualche bacio. / Caro dove si andrà / – diciamo così – a fare all’amore? / Ho detto quella cosa che tu sai, / e che a te piace, credo, quanto a me»: la domanda-invito è rivolta con insistenza da una donna, che pretende un luogo adatto per un non fuggevole amplesso. È uno degli arditi passaggi di una canzone che su parole di Franco Fortini musicò Fiorenzo Carpi. Era il 1960: l’esplicita richiesta fece scandalo: a profferirla, oltretutto, era una donna, la seducente Laura Betti. Quella cosa in Lombardia è una delle più felici «poesie per musica», per le quali Fortini compose i testi, aggiungendo un capitolo nuovo alla sua poliedrica opera.

In un concerto che vedrà tra gli altri Alessio Lega protagonista alla chitarra, organizzato per domani dall’Istituto Ernesto de Martino di Sesto, saranno eseguiti molti titoli, a verifica di un’esperienza unica. L’iniziativa è tra le tante in agenda per onorare il centenario della nascita di Fortini (1917-1994), promosse da un comitato nazionale animato dal Centro che custodisce, nell’Università di Siena, il lascito documentario ereditato dell’inquieto intellettuale, a suo tempo docente nella neonata Facoltà di Lettere. La canzone prosegue con toni crepuscolari, degni di un Gozzano di simpatie proletarie, disegnando un acre idillio in sintonia con costumi e consumi dell’incipiente miracolo economico. In un pomeriggio domenicale la periferia vede allinearsi un rosario di «millecento ferme sulla via / con i vetri appannati / di bugie e di fiati». Da lontano s’odono i rintocchi della campana «che da un paese suona la novena», mentre le radio rantolano i risultati delle ultime partite di calcio: si rivela davvero arduo scovare un posto dove dar sfogo in pace all’eros che preme.

L’allegoria delle strettezze di quell’Italia che s’avviava verso uno sviluppo sfregiato da insormontabili disuguaglianze non potrebbe essere più netta. Ma il Fortini delle canzoni apre ironicamente alla speranza. Tutti gli amori (1958) inscena l’amara conclusione di un affettuoso legame: «Tutti gli amori cominciano bene», anche se finiscono bruscamente: «Spesso gli amori finiscono male / la donna resta sola / lavoro e servitù, / la libertà diventa una parola». Eppure «quel ch’è stato vero un mese o un giorno» non si dissolverà nel nulla. Nel mondo tanti si vogliono bene e vivono alfine in libertà. Traspare in evidenza come le vicende personali s’intreccino con la consapevolezza di sconvolgimenti generali in un gioco dialettico punteggiato da non rassegnate riflessioni.

Spiegando i motivi che stavano al fondo di un’esperienza avviata nel 1957 con il gruppo di Cantacronache e proseguita con il Nuovo Canzoniere Italiano (1962), Fortini ha spiegato le sue costanti intenzioni: «Mettere in rapporto un fatto privato (per esempio un sentimento amoroso) con dei sentimenti, dei fatti pubblici». Accanto a questa vena melanconica prese corpo un filone di rabbioso sarcasmo, e fu quello ch’ebbe più fortuna. Sergio Liberovici musicò nel ’58 un impietoso ribaltamento dell’Inno di Mameli, che conquistò vasta risonanza nelle assemblee giovanili. L’attacco di Patria mia era feroce: «Fratelli d’Italia/tiriamo a campare! Governo ed altare/si curan di te./Fratelli d’Italia, ciascuno per sé!». I senari rispecchiavano il dilagante anticlericalismo, che echeggiava un ribelle Ottocento.

L’impianto dell’originale ottocentesco è, invece, vigorosamente proiettato nel presente con il tormentato aggiornamento dell’Internazionale, cui Fortini teneva moltissimo. Ci lavorò a quattro riprese, dal 1968 al 1994, eliminando i rituali riferimenti ad un’ideologia che aveva finito per tradire l’alto e genuino grido. Non vi si prospetta più una «futura umanità», ma «un’altra umanità», attiva da oggi su questa terra. Ad una sospirata utopia si sostituisce «il nostro sogno che è realtà». L’entusiasmo che Fortini riversava nelle imprese più innovative non era inferiore alla consapevolezza dello scacco cui si sarebbe andati incontro. In Italia la tradizione della ballata alla Brecht-Weil aveva scarse chance di attecchire. Le arie del melodramma conquistarono una diffusione privilegiata. E l’industria esaltò le giulive canzonette lanciate da Sanremo. Chi puntò a ritagliare uno spazio che conciliasse intelligenza critica e gradevolezza corale dovette rassegnarsi a una limitata fortuna, che avrebbe lasciato il segno e influenzato una linea che può vantare una miriade di campioni: da Tenco a Guccini, da Ivan Della Mea al tenero De André. E come dimenticare il Dario Fo delle commedie sugli italioti abbagliati da fasulli miraggi? Franco Fortini partecipò alla scommessa con pedagogico impeto illuministico e gelido ardore profetico. Risentirlo parlare attraverso canzoni quasi dimenticate sarà come rivivere certe sue lezioni, condite di un’affilata moralità.