Firenze oltre il turismo

rifacciamo i conti (parlando chiaro)

di Paolo Ermini

Ci voleva il Covid-19 per farci capire il diritto e il rovescio della tassa di soggiorno e di tutte le altre entrate del Comune di Firenze legate al turismo. Quando il sindaco Nardella ha ventilato l’ipotesi di spegnere i lampioni per far fronte all’improvvisa voragine che si era aperta nei conti di Palazzo Vecchio per la fuga dalla città, ci siamo chiesti: ma come fanno le città senza turisti? Mica non hanno asili e giardini pubblici… E le strade sono illuminate anche lì… Sul Corriere Fiorentino di giovedì Silvia Ognibene ha fatto il confronto tra il bilancio di Firenze e quello di una città vicina, anche per dimensione e cultura politica: Bologna. Ebbene, ecco i numeri che fanno la differenza tra le due realtà.

Nel 2019 il capoluogo dell’Emilia Romagna ha incassato 145 milioni e mezzo di Imu, 92 milioni di Tari, 28 milioni di Cosap, 50 milioni e 600 mila euro di Irpef (con esenzione fino a 15 mila euro lordi), 10 milioni di tassa di soggiorno e meno di 115 mila euro di ticket turistici.

Sempre nel 2019, Firenze ha incassato 148 milioni di Imu, 102 milioni di Tari, 30 milioni di Cosap, 25 milioni di Irpef (con una esenzione fissata alla quota più alta di tutta l’Italia), 49 milioni di tassa di soggiorno, 18 milioni di ticket dei bus turistici e 15 milioni di biglietti nei musei civici. Passando a fare qualche somma, si deduce che a Firenze le entrate di tipo turistico l’anno scorso sono state 82 milioni, cioè il 12,7 per cento, mentre a Bologna si sono fermate all’1,5 per cento. Di contro, alla voce Irpef le entrate di Bologna sono state il quintuplo di quelle fiorentine. Vuole dire che la città governata da Virginio Merola punta parecchio sull’apporto finanziario dei bolognesi, mentre Firenze si avvale molto dei contributi dei turisti.

Per Bologna è una scelta praticamente obbligata perché oltre Appennino il movimento turistico è limitato, per Firenze invece è una scelta tutta politica, che Nardella ha fatto in linea con il suo predecessore Matteo Renzi. Presentarsi ai propri cittadini potendo esibire la tassazione Irpef più bassa di tutto il Paese è senz’altro un’ottima carta, anche sul piano elettorale. Però con alcuni risvolti, non proprio di secondaria importanza.

La prima considerazione, scontata ma non banale, è che Firenze, a differenza di Bologna, ora è rimasta senza 82 milioni di entrate e deve chiedere disperatamente una mano al governo per tentare di tappare la falla.

La seconda considerazione viene pensando a quello che è successo a Firenze negli anni passati. Nardella adesso dice che il modello del centro votato esclusivamente al turismo di massa non va più bene, ma i numeri del bilancio ci dicono che quel modello dava frutti molto graditi all’Amministrazione. Tanto che l’assetto socio-economico della città, e in particolare del Quartiere 1, è rimasto immutato fino all’esplosione del Coronavirus. Quante battaglie abbiamo perduto, ad esempio, contro i torpedoni parcheggiati anche su tre file sul lungarno Pecori Giraldi… La terza considerazione riguarda il sindaco. In un’analisi comparsa il 17 maggio su questo giornale, Franco Lucchesi sottolineava come avere un sindaco al secondo mandato, e quindi senza la necessità di guadagnarsi un’altra rielezione, potrebbe essere per Firenze un’occasione straordinaria per cambiare finalmente strada. Forse proprio a partire dalla questione fiscale. Nardella fa bene a premere su Roma affinché Conte e C. sostengano i Comuni delle città d’arte desertificate dalla pandemia. Al tempo stesso dovrebbe però fare la sua parte, tutt’altro che marginale: rivedere tutte le entrate e le uscite del Comune, razionalizzare, eliminare gli sprechi — se ce ne sono — e poi (salvo miracoli) parlare ai fiorentini con il linguaggio della verità. E chiedere a loro qualcosa di più per non dover tagliare i servizi. Non un aiuto volontario, come ha fatto due giorni fa, sollecitando gli acquisti dei biglietti d’ingresso a Boboli anche se i fiorentini possono entrarci gratis. No no, qui serve una revisione strutturale. Valida anche per la stagione, chissà, in cui i turisti torneranno. Se viceversa, sotto sotto, si spera di poter tornare velocemente a spremere quel limone, allora vuol dire che il disastro della Firenze pre Covid non ha insegnato nulla, lasciando che la città si adagi sulla nostalgia della ricchezza perduta. Oppure — ancor peggio — significherebbe che i progetti di cambiamento sono solo il paravento della scarsità di idee e della mancanza di coraggio per provare a scardinare la rete degli interessi corporativi che hanno avvilito finora Firenze. Secondo lo schema ricorrente del Rinascimento a parole.

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