Fiamme, fulmini e cascate Il viaggio di Plessi alla Fenice.

 

Installazioni L’artista trasforma il teatro di Venezia: il palcoscenico pieno di immagini, la platea svuotata dalle poltrone, i palchi rossi e blu, 200 calchi ritrovati nei magazzini e riallestiti. «Gli elementi primordiali consentiranno una nuova nascita»
Wagner nell’iPad; il Viaggio in Italia di Goethe sul tavolino accanto al letto; Nam June Paik come maestro dentro la testa e dentro il cuore («In Italia ho scoperto Paik e la sua videoarte vent’anni prima di tutti gli altri, ma non tutti sembrano volersene ricordare»). E la passione di Fabrizio Plessi per Sigfried e Tannhäuser si ritrova immediatamente nella monumentalità e nella potenza dei suoi lavori: difficile, ad esempio, non definire «wagneriana» La Casa degli Dei , installazione creata nel 2013 per la Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova, in una sorta di ideale confronto tra il classicismo degli affreschi di Giulio Romano e la contemporaneità piena di sentimento di Plessi. Che, non a caso, dal 1990 al 2000 è stato anche professore di «Umanizzazione delle tecnologie» alla Kunsthochschule für Medien di Colonia.
A legare Goethe e Plessi è invece la scelta di Venezia (lui nato a Reggio Emilia nel 1940) come luogo della vita e della Giudecca, in particolare, come sede del suo studio-laboratorio: grandi spazi; enormi scaffali colmi di libri e di Moleskine con la copertina nera riempite compulsivamente di disegni, schizzi e parole; un contenitore dalle pareti bianche «perché il bianco è simbolo di creatività e futuro». La stessa Giudecca che proprio Goethe avrebbe scoperto nell’ottobre del 1798 e dove, sdraiato nella sua gondola, si sarebbe sentito lui pure «compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque veneziano». Alla lezione di Paik lo riporta, infine, la prossima sfida, quella che il 25 luglio affiderà a un artista «potere assoluto» sul Teatro della Fenice (di nuovo Venezia, dunque) che per la prima volta «da storico luogo d’opera e di balletto diventerà spazio artistico» a 360 gradi. Un’altra sfida che si tradurrà in un viaggio di suoni, luci, fuoco, acqua, cenere (quella in cui i visitatori saranno obbligati a camminare «per ricordarsi della precarietà dell’esistenza») e grandi video molto «plesseschi» che si riempiranno di volta in volta di fiamme, fulmini, onde e cascate.

Da sempre gli «elementi primordiali» come l’acqua e il fuoco sono al centro della ricerca artistica di Plessi che, anche stavolta, si esprimerà attraverso un gioco di schermi tipico del suo Dna creativo ( Fenix Dna è il titolo dell’opera-mostra), «un Dna da shakerare con quello de La Fenice». In che modo? Mettendo a confronto gli spazi del teatro (il palcoscenico riempito dalle immagini, la platea svuotata delle poltrone, i palchi colorati di rosso o di blu) con i 200 calchi (mai visti finora) disegnati e modellati dal veneziano Guerrino Lovato «quali prototipi delle sculture e dei bassorilievi di ornato della cavea del teatro».

Quando Philippe Donnet (amministratore delegato e Ceo di Generali che ha promosso il programma Valore Cultura nel cui ambito è inserita la sperimentazione di Plessi) e Cristiano Chiarot (sovrintendente della Fenice) gli hanno proposto un progetto con la Fenice, Plessi ha esitato: «Avevo paura di fare una “plessata”» confessa a «la Lettura». E aggiunge: «Ho pensato che non potevo mettere in scena una mia celebrazione e una sequenza di miei lavori, ma che dovevo progettare qualcosa di diverso, qualcosa di universale e che non utilizzasse il teatro come un semplice guscio».

L’occasione (o meglio l’ispirazione) è arrivata con una visita nei magazzini della Fenice: «In quei calchi abbandonati, avvolti in anonimi fogli di plastica, ho sentito che c’era il Dna del teatro e che se fossi stato in grado di utilizzarli nel modo giusto avrei potuto far toccare ai visitatori l’anima stessa della Fenice». A loro verrà proposto un viaggio (con tanto di repliche, proprio come un’opera o una commedia, visto che le tempeste e i fulmini si ripeteranno secondo orari precisi) in un labirinto di emozioni, ma anche un ritorno alle origini del teatro, considerato che la platea vuota, con gli spettatori in piedi, era tipica dei tempi di Shakespeare (nel 2000 Plessi aveva tra l’altro curato le scenografie per il Sogno di una notte di mezza estate per l’Ater balletto con la coreografia di Mauro Bigonzetti). Spiega Plessi che «i calchi sono l’elemento positivo, quello da cui tutto potrà sempre rinascere». In mezzo a questi calchi (che riproducono capitelli, barbacani, teste di putti, maschere e grottesche) il visitatore-spettatore assisterà così a una performance che di fatto trasformerà la storica Fenice in un’altra La Fenice, risorta dalle sue stesse ceneri come l’animale mitologico di cui porta il nome.

Ogni giorno il pubblico potrà poi ascoltare le note composte per l’occasione da Giovanni Sparano (eseguite da Pourquoi-Pas Ensemble con la direzione di Alvise Zambon e cantate dal mezzosoprano Francesca Gervasi) «in un’esperienza immersiva di luci e di colori che vuole essere anche un modo per allungare la vita del teatro oltre i confini della consueta programmazione che si chiude con l’estate» (un esempio che potrebbe risultare utile per altri teatri italiani sempre in cerca della quadratura dei bilanci).

«La moltitudine di calchi in gesso bianco, l’intera decorazione de La Fenice, non sono altro che l’anima vera di questo luogo; l’infinita capacità di riprodursi, in feroce contrasto con la cenere nera a terra a simboleggiare le nostre insicurezze. E noi spettatori finiremo giustamente per perderci nel labirinto di emozioni»: di questo Fabrizio Plessi sembra essere fermamente convinto. Eppure la sua tecnologia romantica («I ragazzi dovrebbero essermi grati per aver fatto loro capire quanto umano e poetico possa essere uno schermo, ma credo che dovrebbero guardarsi di più attorno e non rimanere troppo attaccati a quegli schermi») sembra ogni volta doversi scusare di tutto (o quasi): del suo successo (35 sono i musei finora dedicati a Plessi come quello sull’Autostrada del Brennero e 500 le «personali», la prossima al Puskin di Mosca); di una frequentazione virtuosa con le griffe ancora una volta anticipatrice (la «Easy Bag» per Louis Vuitton, 2008); persino dell’ammirazione per Anselm Kiefer. Ma c’è allora qualcosa che rende orgoglioso Fabrizio Plessi? «Quando salgo in aereo e la mia immaginazione prende il volo con me. Non sa quante Moleskine sono capace di riempire da qui a New York!».

 

Corriere della Sera – La Lettura.