«C’è una gravissima minaccia nei confronti di tanti cristiani in diverse parti del mondo. E bisogna fare di più». L’ultimo massacro di studenti in Kenya e il conseguente grido di dolore di papa Francesco allarmano il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che in un’intervista al Corriere non esclude il ricorso, anche da parte dell’Italia, all’uso della forza: «Per contrastare il terrorismo è inevitabile il risvolto militare. Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma questi gruppi vanno affrontati anche sul piano militare».
Papa Francesco ha condannato il «silenzio complice» che circonda il massacro di tanti cristiani nel mondo e ieri, lunedì dell’Angelo, ha chiesto che il mondo non assista inerte. Lei, ministro Paolo Gentiloni, cosa pensa di queste parole?
«C’è una gravissima minaccia nei confronti di tanti cristiani in diverse parti del mondo. E bisogna fare di più. Ma da anni c’è un male europeo, quella miscela tra egoismo e ignavia che spinge a voltare lo sguardo dall’altra parte rispetto a ciò che accade oltre il nostro piccolo mondo antico. Per cui se proponi di intervenire contro il terrorismo fai un errore, se investi in attività di cooperazione e sostegno a favore dei profughi cristiani stai sprecando soldi, se adotti politiche di accoglienza agli immigrati compi una follia».
Ernesto Galli della Loggia, domenica 5 aprile, sul «Corriere della Sera» ha parlato della fragile identità dei cristiani sottolineando come l’unica risposta possibile sembri il silenzio…
«Purtroppo abbiamo già assistito a quel silenzio europeo vent’anni fa, quando le truppe guidate da Ratko Mladic massacrarono ottomila bosniaci musulmani a Srebrenica. Ora la persecuzione dei cristiani ci interpella ancora più da vicino perché riguarda la nostra identità e le nostre radici. Dobbiamo fare di più. Non possiamo stare in silenzio. Anzi, occorre dire anche le cose come stanno».
Cosa significa e cosa comporta fare di più? Matteo Renzi, in un’intervista a «Il Messaggero», ha detto che su questo tema c’è troppa timidezza e che ci sarà un’iniziativa anche a livello del Partito socialista europeo.
«Queste iniziative di mobilitazione sono fondamentali. Alcune sono già in corso, poco seguite dai media. Penso alla seduta speciale del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 27 marzo scorso in cui il segretario generale Ban Ki-moon ha proposto di inserire l’intolleranza religiosa tra i parametri che determinano le accuse di genocidio verso i singoli Paesi. Così come penso alla decisione del Vicariato di Roma di destinare tutte le collette pasquali raccolte nelle chiese durante Pasqua ai cristiani dell’Iraq. E penso anche che alla comunità cristiana del Kenya, dopo l’atroce strage degli studenti dell’Università di Garissa, vadano dati segnali immediati di sostegno, anche raccogliendo la disponibilità di diverse università italiane. Cosa significa fare di più? Sul nostro territorio, proteggere i simboli e i luoghi della cristianità e tutelare le minoranze religiose, penso agli ebrei italiani, alle loro comunità, che potrebbero essere visti come bersagli. E poi c’è una verità: per contrastare il terrorismo è inevitabile il risvolto militare. Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma questi gruppi vanno affrontati anche sul piano militare. Non userò la parola combattere, altrimenti mi ritrovo nei panni del crociato…».
Quindi non basta la diplomazia, c’è anche l’opzione militare…
«Facciamo parte di una coalizione militare anti Daesh impegnata soprattutto in Iraq e in Siria. Ma in futuro si potrebbe valutare l’opportunità di contribuire al contrasto del terrorismo in Libia o di fenomeni come Boko Haram in Nigeria, per esempio. I carabinieri italiani sono impegnati in Somalia per contribuire alla formazione e all’addestramento delle forze armate locali che devono combattere proprio contro i responsabili della strage di Garissa. Insomma, c’è una dimensione militare».
Lei usa l’acronimo Daesh, e non l’espressione Isis. Perché?
«Lo ritengo un gesto di controinformazione rispetto a chi si attribuisce il ruolo di stato islamico e si autoproclama califfo. “Per noi sono dei rinnegati”, mi ha detto giorni fa re Abdallah II di Giordania. E a questo proposito ricordo che c’è un’altra dimensione alla quale non possiamo sottrarci. Ovvero sostenere con decisione chi, nell’ enorme sfida politico-culturale in atto dentro il mondo islamico, si impegna contro il terrorismo. “Voi potete aiutarci ma siamo noi che dobbiamo sconfiggere i rinnegati”, mi ha detto proprio il re di Giordania. Identiche parole sono venute dal presidente egiziano Al Sisi e dall’Imam di Al Azhar, Sheikh Ahmed al Tayeb. E per le stesse ragioni dobbiamo cercare di favorire, per quanto è nelle nostre possibilità, una convivenza tra sunniti e sciiti».
Sempre Ernesto Galli della Loggia ha proposto che il nostro Paese mostri una doverosa generosità verso i profughi cristiani costruendo ospedali, scuole, case.
«Potrei cavarmela dicendo che già lo facciamo. Che appena mercoledì scorso ho visitato, a ottanta chilometri da Amman, un ospedale costruito dall’Italia per i rifugiati siriani. Ma dobbiamo sapere che l’Italia non sta facendo abbastanza perché le risorse messe a disposizione non sono all’altezza della civiltà che rappresentiamo».
E come è possibile trovarne altre?
«Qui torniamo alla miscela tra egoismo e ignavia, al volto girato dall’altra parte, alla logica secondo la quale tutto si risolve con una grande indignazione ma al riparo del nostro recinto. Dobbiamo decidere se vogliamo assumerci responsabilità chiare, svolgere il nostro ruolo oppure se dobbiamo continuare a tenere questi problemi al di fuori del nostro piccolo mondo, che poi è una semplice illusione. Ma questo comporta spese, e ciò riguarda anche l’opzione militare. L’importante è avere ben chiara la natura di questa persecuzione».
E qual è la sua analisi?
«Si saldano due questioni. I cristiani visti come identificazione dell’Occidente, quindi bersaglio anche dove sono maggioranza, come in Kenya. E poi i cristiani quando sono minoranza, oggetto di intolleranza come in Pakistan. Prendiamo il caso dell’Iraq. Dieci anni fa i cristiani erano un milione e mezzo, ora sono meno di trecentomila, col rischio di scomparire in zone come la Piana di Ninive. Quando il Papa mette l’accento sui cristiani del Medio Oriente e li definisce un piccolo gregge sul quale grava una grande responsabilità, si riferisce proprio a questo dramma».
Pensa che le voci di una possibile confluenza di Al Qaeda nel Daesh rappresentino un ulteriore pericolo?
«Secondo quanto risulta ai maggiori Paesi occidentali e a noi, è prematuro immaginare una confluenza di diversi gruppi jihadisti nel Daesh. Ciò che sta certamente accadendo, penso a Boko Haram, è che i cupi vessilli neri del Daesh vengono usati da raggruppamenti differenti come in un macabro franchising del terrore, perché quel marchio ha un chiaro impatto mediatico».
Un’ultima domanda sulle preoccupazioni di Israele dopo l’accordo con l’Iran sul nodo nucleare. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sostiene che con l’intesa miliardi di dollari finanzieranno in futuro il terrorismo globale. Qual è la sua opinione?
«L’Italia, in tutti questi anni, è stata favorevole al raggiungimento di un buon accordo, e certo non per astratto amore del negoziato. Condivido l’opinione degli Stati Uniti: i fondamenti sono stati raggiunti. Capisco le preoccupazioni israeliane, ma escludo che Netanyahu possa avere nostalgia di Ahmadinejad. Se l’accordo verrà definitivamente concluso a giugno, sono certo che stabilizzerà l’Iran e favorirà una sua evoluzione in una direzione meno pericolosa per Israele».
Paolo Conti