“Fermate il mondo: io, Franzen, scendo”.

Incontro con
Jonathan Franzen vive a Santa Cruz, California, in una modesta e deliziosa casa di due piani, in una strada che assomiglia esattamente a molte altre strade negli Stati Uniti e che, a parte alcune scelte estetiche, assomiglia a tutte le altre strade del suo quartiere. Santa Cruz, commenta Franzen, è una « piccola sacca di resistenza degli anni Settanta » . All’interno, la casa ospita opere d’arte che rappresentano uccelli: dipinti, disegni e statuette. All’esterno, sul retro, ci sono uccelli veri e propri, un piccolo portico con una zona pranzo per quattro persone arredato con mobili in ferro battuto e, proseguendo oltre, uno spettacolo impressionante: un enorme e profondo burrone che non ci s’immaginerebbe mai di trovare dietro le case che si affacciano su una strada dall’aspetto così omogeneo, ma eccolo lì. È talmente scosceso e ricco di piante e di uccelli – di cui Franzen elenca le specie mentre ci sfrecciano davanti al viso – che quasi non si nota l’oceano che si estende al di là.
Anche se non si è degli appassionati di natura o della California, a Santa Cruz sembra di fare un salto indietro nel tempo. O forse è l’effetto di essere con Franzen: il modo in cui lascia il telefono nell’altra stanza, o come parla usando frasi lunghe. Non conosco più nessuno che usa frasi lunghe.
Due settimane prima di questo incontro ha finito la sceneggiatura finale per l’adattamento del suo quinto romanzo,
Purity, per conto della Showtime. Ha sempre avuto un rapporto ambivalente con la tv, essendosi fatto un’opinione in merito seguendo la sit-com Sposati… con figli per via, ammette con un certo imbarazzo, di una cotta per Christina Applegate.
Squilla il telefono, lui si alza e trova il BlackBerry in cucina. “ Ah, capisco”, risponde dopo essere rimasto in ascolto per un po’. “Be’, allora immagino che non ci sia niente da fare”. Torna a sedersi sul divano. In realtà non è che proprio si sieda sul divano, piuttosto ci cola sopra, come un dipinto di Salvador Dalí: la testa posata sulla parte più alta dello schienale, e l’attaccatura delle lunghe gambe che non si piega a novanta gradi prima della seduta, bensì poggia sull’estremità del divano, dove normalmente si piegano le ginocchia. Unisce le mani sopra la pancia. Era Todd Field al telefono. Field, che ha scritto un buon 30 percento delle sceneggiature delle 20 ore di episodi per Purity,
e che avrebbe dovuto curarne la direzione e regia, ha chiamato per dare a Franzen la notizia che la pre- produzione era stata interrotta. Franzen tiene lo sguardo fisso davanti a sé, cercando di rimettere a fuoco un programma per la giornata. Magari birdwatching? No, tutti vanno a fare birdwatching con lui. Il telefono squilla di nuovo. È Daniel Craig, che è stato preso in considerazione come protagonista della serie: lo hanno chiamato a interpretare un’altra volta James Bond e non può aspettare Purity. Però dice che l’esperienza è stata straordinaria. È un peccato che ci sia questo accavallamento. Ci hanno provato, no? Franzen si siede e sbatte gli occhi un paio di volte.
È questo il vero problema degli adattamenti, anche quando si è d’accordo a farli. Ci sono troppe persone coinvolte. Quando Franzen scrive un libro, si assicura che resti intatto fin dalla visione iniziale dell’opera. Lo manda al suo editor, e poi apporta o meno i cambiamenti suggeriti.
Ciò che poi troviamo sugli scaffali è esattamente quello che lui ha voluto creare fin da principio. Forse è l’unico modo di farlo. Sì, scrivere un romanzo – da solo in una stanza con i propri pensieri – forse è la sola maniera di ottenere la massima soddisfazione dai tuoi sforzi creativi. Tutti gli altri modi possono spezzare il cuore.
SPIEGAZIONI? NO GRAZIE
Dal 2001, quando uscì Le correzioni, le vendite dei suoi romanzi sono calate. Quel libro, incentrato su una famiglia del Midwest che vive una serie di crisi personali, ha venduto a oggi 1,6 milioni di copie. Libertà, definito un “capolavoro” nel primo paragrafo della recensione sul New York Times, ha venduto 1,15 milioni di copie dalla sua pubblicazione nel 2010. Purity, per il Los Angeles Times
“struggente e straordinariamente toccante”, si è fermato a 225.476 copie.
Che cosa ha fatto di così sbagliato? Eccolo, con i suoi saggi e le sue interviste ad argomentare in modo colto e articolato sul modo in cui viviamo al giorno d’oggi – da Twitter (a cui è contrario), al modo in cui il politically correct è stato usato come arma per mettere a tacere lo scambio di opinioni (a cui è contrario), all’obbligo dell’autopromozione (a cui è contrario), all’incessante chiusura delle telefonate con le parole “ciao tesoro” (a cui è contrario, perché quelle sono parole per la sfera privata) – e anche se i critici lo adoravano e aveva un pubblico di lettori devoto, altri hanno usato proprio i meccanismi e le piattaforme da cui ci stava mettendo in guardia per ridicolizzarlo. Esternazioni di odio, hate- pieces,
hashtag ostili, occhi alzati al cielo con giudizi riduttivi sulle sue varie prese di posizione, critiche pedanti di ogni sua dichiarazione. Accusato di essere ben disposto a pontificare, ma non ad ascoltare. Accusato di essere troppo fragile per confrontarsi con i suoi accusatori! Lui! Troppo fragile?
Ecco perché uno non dovrebbe dare spiegazioni. Non c’è niente da guadagnarci. Con ogni dichiarazione separata dal suo contesto, ogni trasmissione a senso unico, Franzen viene ridotto a un luddista, a un individuo intrattabile, un uomo pieno di odio, uno snob e ancora peggio. Lui, uno snob! Franzen che potrebbe farvi delle recensioni elaborate e minuziose di The Killing («Non mi capita spesso di piangere alla fine di una serie tv, e quella è stata una serie commovente e molto coinvolgente»), Orphan Black («Tatiana Maslany ti lascia sempre a bocca aperta. È straordinaria. È proprio straordinaria» ), Big Little Lies («Dopo il terzo episodio è diventato prevedibile, anche se mi sono piaciute moltissimo le scene di Nicole Kidman e la sua terapista») e Friday Night Lights («Aveva effettivamente molto di vero»). Guarda la tv commerciale, ma gli danno dello snob!
Ci sono molti giudizi erronei su di lui. Questo lo sa. Quando non ti precipiti a correggere ciò che dicono di te, i travisamenti sono inevitabili. «Si dice che sono una persona arrabbiata. C’è un nocciolo di verità, poiché lo sono stato. Mi capita ancora di irritarmi molto davanti a modi di ragionare sprovveduti. Posso perdere la testa in un attimo quando mi trovo davanti a qualcosa che mi sembra stupido, a un gesto fatto senza riflettere, a un modo di pensare da gregge. Sono cose che mi fanno arrabbiare. Ma nella quotidianità non sono arrabbiato».
QUEL CONTRATTEMPO CON OPRAH
Vale la pena di considerare quale sarebbe il reale impatto dei giudizi erronei su di lui se il « contrattempo con Oprah » , come lo definisce lui, non fosse mai avvenuto. In fondo nel 2001, quando uscì Le correzioni, internet e l’accesso alla rete erano ancora abbastanza una novità, così come lo era l’opinione che Jonathan Franzen fosse un romanziere straordinario.
Aveva scritto due romanzi prima di quello: La ventisettesima città nel 1988, e Forte movimento nel 1992. Difficile definire quei libri delle pietre miliari nel panorama culturale; furono accolti abbastanza bene, ma non benissimo, dalla critica e di certo non vendettero molto. Fu allora che il suo editor al New Yorker gli suggerì che forse era portato per la saggistica. D’un tratto si rese conto che le argomentazioni e la critica sociale che voleva sostenere, comprese le sfumature e le eccezioni, potevano vivere di vita propria. Non aveva più bisogno di ricorrere ai personaggi o agli elementi della trama dei suoi romanzi come cavallo di Troia. E quando lo fece avvenne qualcosa di inatteso: la sua narrativa, liberata dalla foga di educare, non solo migliorò ma divenne straordinaria. Scrisse Le correzioni e Oprah Winfrey lo scelse per il suo Book Club. Il resto sarebbe considerato storia, se non continuasse a tornare fuori così spesso. Nel corso di una serie di interviste, Franzen espresse dei dubbi sul sostegno di Oprah: avrebbe potuto allontanare il pubblico di lettori maschili che lui si augurava avrebbe letto il suo libro; il “logo di proprietà aziendale” lo metteva a disagio; riteneva che alcune delle sue scelte in passato fossero state ” sdolcinate” e “ monotone”. Oprah per tutta risposta ritirò l’invito alla sua trasmissione, e Franzen fu rimproverato da tutti per la sua ingratitudine, la sua fortuna e la sua situazione privilegiata. Divenne rapidamente celebre per aver mancato di rispetto a Oprah quanto per aver scritto un romanzo straordinario. Il mondo ti perdonerà molto se scrivi un romanzo straordinario, ma non ti perdonerà per aver mancato di rispetto a Oprah. «Lessi online qualcosa di quel che si diceva, e mi fece molto, molto arrabbiare, perché ritenevo che le mie parole erano state estrapolate dal contesto » , mi racconta.
Cominciò a lavorare sul romanzo seguente, Libertà, ma si accorse che era un compito faticoso e ingrato perché stava usando il romanzo come un’arma. Era una sua brutta abitudine, scrivere per vendicarsi. Una volta aveva scritto una lettera di sei pagine, interlinea singola, a Terence Rafferty dopo che il giornalista aveva stroncato La ventisettesima città sul New Yorker (e come se non bastasse, la rivista si era rifiutata di rispettare la grafia originale del titolo).
« Ho trascorso la maggior parte della mia vita a superare la fase Gary
Lambert – il fratello maggiore de Le correzioni noto per la sua ansia e rabbia – quel ‘più ci pensava e più saliva la rabbia,’ sveglio alle tre di notte in uno stato d’animo accusatorio, a studiare la confutazione perfetta in quattro frasi che avrebbe non solo demolito la cosa negativa che dicevano di me, ma anche auspicabilmente ferito profondamente la persona che l’aveva detta. Non è uno stato d’animo bello da vivere».
OBBLIGO O VERITÀ?
Quando Franzen aveva iniziato a scrivere, un autore poteva far uscire la sua opera nel mondo senza doverla spiegare. La promozione dei libri non era mai stata un problema: adora il pubblico, adora parlare del suo lavoro. Ma non doveva avere un sito web o collegarsi via Skype con i gruppi di lettura. Di sicuro non doveva twittare. Al giorno d’oggi, invece, essere uno scrittore, specialmente uno che vuole piacere al pubblico, comporta usare quegli strumenti. Devi partecipare. Devi frequentare i social media. Lui odia i social media, lo terrorizzano, l’aveva previsto fin dall’inizio.
Era già dubbioso sull’interazione digitale ancor prima del suo pezzo del 1995 per The New Yorker sul libro Essere digitali di Nicholas Negroponte. «Era così eccitato dalla prospettiva di un futuro in cui uno non avrebbe ricevuto il vecchio e noioso New York Times », racconta. «Uno avrebbe ricevuto via web un nuovo servizio dal nome ‘The Daily Me’, composto solo dai pezzi di interesse personale e adeguato alla propria visione del mondo. Proprio quello che abbiamo adesso. La cosa folle è che Negroponte pensava che ciò fosse straordinario, quasi un’opportunità utopica del futuro » . Per Franzen era assurdo che qualcuno celebrasse il concetto di non dover affrontare punti di vista opposti ai propri.
«Non sono mai stato un grande fan di una società strutturata principalmente in base al consumismo, poi mi sono riconciliato con l’idea», dice. «Ma quando siamo addirittura arrivati al punto che ogni singolo individuo doveva essere un prodotto da vendere e la cosa più importante era aggiudicarsi un like, mi è sembrato molto preoccupante a livello personale, come essere umano. Vivere nel perenne terrore di perdere fette di mercato come persona significa essere nella forma mentis sbagliata per procedere nella vita » . Ovvero, se lo scopo è quello di ricevere like e retweet, forse ci si modella nella persona che si ritiene riceverà quei segni di riconoscimento, senza considerare se quella persona somiglia al proprio io. Compito dello scrittore è fare affermazioni scomode e senza sconti. Perché uno scrittore dovrebbe modellarsi e diventare un prodotto?
Perché non lo stanno a sentire sugli effetti sociali di tutto ciò? «Su internet si punta molto a distruggere l’élite, i custodi», dice. «La gente sa cos’è meglio. Seguendo il filo logico fino in fondo, si arriva a Donald Trump. Che ne sanno quegli addetti ai lavori di Washington? Che ne sanno i giornali come il New York Times?
Sentite, la gente sa cos’è meglio». Alza le braccia al cielo.
E così ha scelto di ritirarsi da tutto. Dopo la promozione de Le correzioni ha deciso che non avrebbe più letto niente su di sé: né recensioni, né riflessioni, né articoli e poi, quando hanno iniziato ad arrivare, né aggiornamenti di status né tweet. Non voleva sentire le reazioni alla sua opera. Non voleva vedere la miriade di modi in cui veniva travisato. Non voleva sapere quali hashtag circolassero.
«La cosa mi turbava talmente tanto che mi resi conto che non dovevo leggerli. Ho smesso di leggere le recensioni perché ho notato che ricordo solo quelle negative. Il piacere fugace che si prova quando qualcuno usa un aggettivo di elogio per il tuo libro è completamente annientato dalla sgradevolezza del ricordo duraturo, parola per parola, delle valutazioni negative. Noi scrittori siamo fatti così».
CHIEDI AL VOLATILE
Alla fine siamo andati a fare birdwatching, come tutti quelli che vanno a trovarlo.
Franzen mi ha dato un binocolo, mi ha detto di cercare a occhio nudo un uccello fermo, trovare un punto di riferimento ben riconoscibile dell’albero su cui si posava, poi portare il binocolo al viso tenendo gli occhi sul punto di riferimento dell’albero. E così ho fatto. L’uccello che ho visto era un codibugnolo, il più piccolo volatile canoro del Nord America. Non mi veniva niente da dire, e mi sono sentita disperata e falsa, così ho fatto un commento sul suo naso. «Becco», mi ha corretto. «Giusto, becco», ho risposto.
Mentre fissavo il codibugnolo, immerso nel silenzio e nel verde, gli ho detto: «Mi piacerebbe farlo. Mi piacerebbe poter imparare cose sugli uccelli e poi andare a cercarli». Ha allontanato il binocolo dal viso e mi ha guardato, felice di sentirlo, e soddisfatto mi ha risposto: «Sono contento di sentirlo». Ha continuato dicendo che se volevo farlo davvero, sapeva che la sezione Audubon dalle mie parti era piuttosto buona e forse mi avrebbero portato a fare un giro per iniziare.
Ma non era quel che intendevo. Quel che intendevo era che avrei voluto essere capace di fare tutto quello che fa lui: vivere in un tranquillo e verde idillio in cui il tempo si è fermato, avere un personal trainer due volte la settimana ( ma anche sapere cosa fare la settimana prossima), rivolgere lo sguardo verso l’alto e intorno, invece che sempre dritto davanti a me e verso il basso. Secondo Franzen, uno scrittore non può produrre un buon lavoro – scrivere qualcosa che possa essere definito « struggente e straordinariamente toccante » – senza circondarsi con una palizzata per poter controllare ciò che proviene dall’esterno. In modo da poter formulare un pensiero che non incontri una continua resistenza da parte di chiunque ti abbia mai conosciuto, o sentito parlare di te, o abbia dimostrato interesse per qualcosa di tuo. Senza lasciarti pensare per un attimo.
Non vale solo per gli scrittori, vale per tutti. Lo scrittore è solo un caso estremo di qualcosa con cui tutti si scontrano. «Da una parte, per funzionare bene devi avere fiducia in te stesso, nelle tue abilità, e s un’enorme fonte di sicurezza. Dall’altra, per scrivere bene, o anche solo per essere una persona onesta, devi essere in grado di dubitare di te stesso, di prendere in considerazione l’ipotesi di aver torto su tutto, di non sapere niente, e avere comprensione per le persone le cui vite e le cui convinzioni e prospettive sono molto diverse dalle tue». Internet
avrebbe dovuto offrire questa possibilità ma non l’ha fatto. « Questo esercizio di equilibrismo » – la sicurezza di sapere tutto associato alla capacità di credere che non sia così – « può funzionare solo, o funziona meglio, se gli dedichi uno spazio privato».
FRAGILI E CONNESSI
Certo, ok. Ma evitare l’interazione digitale al giorno d’oggi significa non partecipare alla vita. Se uno si pone come intellettuale pubblico, se scrive romanzi sulla condizione contemporanea, non dovrebbe farne parte? Si può scrivere in modo chiaro di una cosa in cui non si è immersi? Non bisogna mettersi nelle condizioni di tutti noi che per lo più la sopportiamo e la odiamo?
La risposta è no. Non devi assolutamente farlo. Puoi perderti un meme, e non fa nessuna differenza. Puoi essere definito fragile, e sopravviverai. «Sono l’opposto di fragile. Non mi serve partecipare a internet per rendermi vulnerabile. La vera scrittura mi rende vulnerabile, rende vulnerabile chiunque». La gente può pensare cose di te che non sono vere, e non è necessariamente tuo compito correggerle. Se lo fai, la correzione si divorerà la tua intera vita, e poi che ne resta? Non devi rispondere alle critiche su di te. Non devi neanche stare ad ascoltarle. Non devi ridurre i tuoi pensieri in bocconcini perfetti, solo per i limiti imposti da altri.
Nessuno ha mai pensato che la fragilità stia proprio nell’interazione? Nessuno ha mai pensato che lasciare che gli altri definiscano come riempirai la tua giornata e con cosa ti riempiranno la testa – un flusso passivo e postmoderno di pensieri altrui – sia la fragilità stessa?
In quell’istante desideravo così fortemente possedere ciò che aveva Franzen che mi sarei bevuta il suo sangue proprio lì, tra gli alberi, per ottenerlo.
Un’altra caratteristica degli uccelli è che non sono interessati alle persone. Non interagiscono con gli umani, eppure sono un accuratissimo sismografo del comportamento. Ci rispecchiano senza mai avvicinarsi a noi.
IL SESTO (E ULTIMO?) ROMANZO
A marzo, un anno dopo che ci eravamo conosciuti, mentre il mondo era alle prese con le devastazioni e i tradimenti dei social media e io avevo cominciato a tener traccia delle persone che aggiornavano continuamente Twitter con notizie riguardanti i loro periodi di sospensione sabbatica da Twitter, Franzen ha pubblicato un pezzo sugli uccelli sul National Geographic, per inaugurare le iniziative della rivista in occasione dell’Anno degli uccelli. Per l’occasione la trasmissione “ CBS This Morning” è andata a Santa Cruz a fare birdwatching con lui. Franzen ha spiegato alla giornalista come trovare gli uccelli usando il binocolo, come tenere gli occhi sull’animale e portare il binocolo al viso e rimettere velocemente a fuoco. La donna ha fatto un grido di gioia alla vista di due gufi che dormivano, e sul viso di Franzen è comparsa quell’espressione sorridente e incantevole che ogni tanto assume quando qualcuno sembra davvero capire. Le ha raccontato che la prima volta in cui era stato portato a osservare gli uccelli aveva avuto una reazione simile. “Mi si aprirono gli occhi”, ha detto. “Fu come essere stato introdotto al sesso”. Un’ora dopo, The Cut ha pubblicato un breve articolo dal titolo “Ci spiace informarvi che Jonathan Franzen ha paragonato il birdwatching al sesso”.
Ma Franzen non l’ha visto. Era a Santa Cruz, la sua Brigadoon fuori dal tempo. Stava preparando il libro di saggi che avrà per titolo The End of the End of the Earth e che sarà in libreria da novembre. Stava di nuovo parlando con Showtime per ridurre Purity a una serie più breve e condensata.
E stava finalmente scrivendo il suo sesto romanzo, di cui non mi racconta assolutamente niente, a parte il fatto che sostiene che sarà l’ultimo: dubita che qualcuno possa avere dentro di sé più di sei romanzi completamente realizzati. La moglie, la scrittrice Kathryn Chetkovich, si inserisce per ricordargli che quando lavorava su Libertà aveva detto che sarebbe stato l’ultimo, e lo stesso accadde con Purity. «Allora forse mi sbaglio», dice. «Ma per qualche motivo questo mi sembra davvero l’ultimo».
La vita di Franzen andrà avanti: il personal trainer, il sandwich al tacchino affumicato per pranzo al New Leaf, i doppi di tennis con la moglie e i loro amici quando il tempo è bello ( ed è sempre bello). Alla fine della giornata spegnerà il computer, chiuderà a chiave la porta e salirà sulla sua buona vecchia Camry. In macchina la sua adorata emittente KPIG trasmetterà un pezzo che gli piace. Magari lo canterà ad alta voce: «Un vero amico ha cercato di dirmi: ehi, con tutto il rispetto, ma è da un pezzo che avresti dovuto metterti tutta questa roba dietro le spalle». Magari andrà a casa e cercherà di imparare gli accordi. È una canzone di Rodney Crowell, I Don’t Care Anymore, non me ne importa più niente. ?
Fonte: La Repubblica, quotidiano.repubblica.it/‎