Fenomeno Salsi “Il mio Macbeth interiore e riflessivo”.

FULVIO PALOSCIA
Grande attesa per l’arrivo del baritono al Teatro del Maggio dove l’11 e il 13 canterà Verdi sotto la direzione di Muti. L’esecuzione sarà in forma di concerto e celebrerà i 50 anni dal debutto del maestro a Firenze
Nel mondo della lirica, dove le spine sono più delle rose, essere “il cantante preferito di” può trasformarsi in condanna. Figuriamoci se il mentore è un gigante come Riccardo Muti. Ma il baritono Luca Salsi non è un raccomandato. Lo dimostrano i successi mondiali che il cantante quarantetreenne nato nel parmense annovera da anni. E lo dimostra anche l’attesa che c’è intorno al suo arrivo al Maggio per il Macbeth di Verdi, l’11 e il 13 luglio, proprio sotto la direzione di Muti: l’esecuzione sarà in forma di concerto e celebrerà i 50 anni dal debutto del maestro a Firenze. «Buffo. Non tornavo in Toscana dagli esordi nei piccoli teatri di provincia che oggi non esistono più, ma che erano una palestra importantissima — esordisce Salsi — ho debuttato Belcore nell’Elisir d’amore nel 1998 a Rosignano Solvay, e poi nel 1999 Così fan tutte a San Gimignano…». Nel frattempo il libro della sua carriera ha girato le pagine in modo vorticoso. Oggi, secondo Muti, Salsi non fa Macbeth, ma è Macbeth. Un personaggio «che racchiude tutte le caratteristiche dei ruoli verdiani più belli — dice il baritono — a cominciare all’accurato lavoro di scavo musicale nella parola: non esiste una nota che non sia legata al più recondito significato di ciò che pronunciamo. Tanto più se si debutta quest’opera con il maestro, come è successo a me nel 2013, a Chicago: mi si parò davanti un mondo nuovo, perché Muti riesce a valicare l’evidente e a farti capire ciò che di più impalpabile si nasconde dietro la partitura.
Perché in questo caso Verdi scrive una note più corta? E perché proprio qui, invece, la nota è più lunga? Perché proprio questo accento?». C’è chi critica Muti perché sin troppo fedele al dettato dei compositori. Invece, dice Scalsi (elogiato dalla critica anche per le sue doti attoriali), si tratta di una “fedeltà creativa” che gli ha fatto capire come, partendo dalla musica, si possa approdare ad una visione nuova del personaggio: «Evito effetti circensi assecondando l’autore, alla ricerca ogni volta di nuovi approdi. E questo con Verdi non è difficile, perché più studi i suoi capolavori più ti sorprendi di quali miniere siano. Con Verdi la routine, insomma, non può esistere, anche perché ci sono certe indicazioni che rappresentano sempre un sfida.
Ad esempio l’altro giorno con Muti ci siamo soffermati a lungo su un “pianissimo con voce soffocata”: nonostante Macbeth sia il ruolo che ho interpretato più volte, ancora oggi mi arrovella». La “forma di concerto” non toglie magia all’ennesimo incontro tra Salsi e il personaggio ispirato a Shakespeare, «anche perché il mio Macbeth è interiore, riflessivo, e questo è rispecchiato dalla musica: a parte il duetto iniziale con Banco, la sua linea vocale non ha mai sfoghi ma indugia sui colori. L’assenza di scene e costumi mi piace: ho l’occasione d’essere a pochi centimetri dal maestro, fra me e lui corre un’elettricità fortissima. Ed è come andare all’origine della scrittura di un’opera: se la partitura è meravigliosa, si può fare a meno della messinscena perché la drammaturgia è tutta lì, nella musica». Nascere a San Secondo Parmense significa canticchiare Verdi fin da bambini; «Quando ero piccolo là era pieno di circoli lirici e davvero, come ha raccontato Bertolucci nei suoi film, certe frasi delle opere di Verdi facevano parte della parlata quotidiana. Poi c’erano i cori di dilettanti, dove io iniziato tra un pianobar e l’altro». Ad un certo punto della sua storia, l’occasione leggendaria. Aprile 2015. Salsi è al Metropolitan di New York per Lucia di Lammermoor, ma un giorno riceve una telefonata: corra subito in teatro, Domingo sta male e Ernani rischia di saltare so non ci pensa lui a sostituirlo. La recita è alle 13, in diretta radiofonica; la sera, Salsi deve andare in scena con Lucia. Ma non ci pensa su e, senza ripassare la partitura («avevo cantato l’opera a dicembre a Roma proprio con Muti, il suo lavoro è così profondo da scolpire nella memoria ogni minimo passaggio»), affidandosi alla sapienza di un grande direttore come James Levine, si butta. Senza rete. Trionfo. Dopo, gli viene chiesto se vuole rinunciare all’impegno serale, ma lui neanche per idea, «dovevo smaltire l’adrenalina». Forse in quel momento ha pensato all’energia coraggiosa di un suo idolo. Roger Federer. «Talento, tecnica e eleganza. Un grande fraseggiatore della terra rossa. Sì, insomma, il Muti del tennis».
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/