Fase due, l’obbligo di agire in fretta

Ma se il decreto diventasse “di giugno”, alla fine non si sorprenderebbero in tanti. La storia della Repubblica italiana è seminata di ritardi costosi e occasioni perdute.

La fase due del coronavirus è finalmente cominciata. Assomiglia al secondo atto di una tragedia in cui gli attori sono sul palco, il pubblico è seduto impaziente, e gli autori stanno ancora cercando di trovare le idee giuste per riscrivere la trama e il finale della storia. Sul tavolo ci sono 55 miliardi. Che per gli accademici sono tre punti di pil, per l’azienda Italia sono un sacco di soldi necessari ma non sufficienti per non collassare, e per buona parte della politica nostrana rappresentano l’ennesima gustosa tentazione per calamitare consenso. Un minimo di saggezza, e l’emergenza di due mesi di dolorosa serrata virale, consiglierebbero di spenderli in un giorno e bene, seminandoli nel terreno in cui germogliano i posti di lavoro, e non nella palude dove i partiti vanno a cercare i voti.

Non è solo perché la congiuntura sta precipitando, una buona parte del Paese si sta lentamente risvegliando più povera e si rischiano turbolenze sociali dagli esiti non scontati. Il dilemma di fondo è che, al Tesoro, gli euro non glieli regala nessuno, che un debito mai pingue sta diventando più che mostruoso e che tutti questi denari da restituire, chissà come e chissà quando, graveranno sulle prossime generazioni come colpe dei loro padri.

Non andavamo bene già prima, da anni l’Italia si porta avanti con la triste medaglia dell’economia più asfittica fra i grandi del pianeta, quasi sempre la più lenta ad avanzare nell’Unione europea. Non andavamo bene perché si cercava l’alibi e non la causa: si combinavano poche riforme, il rispetto dei desiderata di gruppi di interesse non sempre in buona fede, la distanza di sicurezza dai problemi gravi che generavano diseguaglianze. Poi è arrivato il virus e siamo rotolati, così tanto da far saltare tutti i vincoli di bilancio (per ora) e consentire al governo di ritrovarsi nei forzieri una dote da mille e una notte, fra nuova possibilità di accedere al mercato e aiutoni santi della banca centrale europea. È un’occasione d’oro che non andrebbe bruciata, perché un’altra – è anche lecito augurarselo – non verrà. La casa è stata abbattuta dal terremoto? Se ne fa una antisismica, ovviamente. E invece non ci siamo.

L’azione del governo dovrebbe essere un sodalizio fortunato fra protezione dei lavoratori, sostegno alla formazione, misure di garanzia e sicurezza per le imprese. Nel pacchetto messo insieme dalle squadre di Gualtieri e Patuanelli ci sono molte buone idee che puntano in questa direzione, ma il “taglia e cuci” degli interessi di bottega continua imperterrito. L’esecutivo dalle quattro anime, almeno, continua a far impazzire gli uomini della ragioneria. I piani vengono scritti e riscritti, torna il vizietto grillino del reddito di cittadinanza trasformato in emergenza e la passione per i miliardi a pioggia per chi non è detto che li spenda. Non si parla abbastanza degli ultimi, di chi lavora in nero non per scelta, dei giovani che vedono il futuro svanire, di una intera generazione bruciata dalla crisi. In qualche modo ce la faremo perché è sempre andata così. Ma il rischio che si ritorni così indietro da non essere mai andati avanti, come invece si dovrebbe e sarebbe giusto, appare più una certezza che un legittimo interrogativo.

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